Derek Fisher e l’arte del rispetto

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Molto spesso capita di ricordarsi di chi vince e non di chi perde. E’ ancora più frequente ricordare i Michael Jordan e i Larry Bird, i giocatori simbolo delle franchigie, e dimenticarsi di chi magari ha dato sempre nel suo piccolo un contributo, determinante o meno che sia. Da buon hater quale sono di Kobe Bryant, mi viene ancora più facile trovare parole d’elogio per un giocatore come Derek Fisher.

Nasce a Little Rock, Arkansas, il 9 Agosto 1974.

Frequenta il college di casa, University of Arkansas, ed è nettamente il miglior giocatore di tutto l’ateneo nonostante cifre nella media: 12.4 punti, 4.4 rimbalzi e 4.2 assist in 112 apparizioni con la maglia dei suoi Trojans. Assolutamente niente di speciale, come dal resto è stata etichettata dai più l’intera carriera del nostro protagonista.

Non esistono aneddoti su quanto fosse talentuoso o particolarmente portato per la pallacanestro, non troverete una sua copertina di Slam o il suo nome tra i più promettenti nei Mock Draft di allora: niente di niente.

Al Draft del 1996 si sono presentati giocatori che hanno poi cambiato la percezione del gioco: Iverson, Marbury, Bryant e Nash, giusto per citarne qualcuno. Fisher non se lo filava nessuno. La chiamata comunque arriva e sono proprio i Los Angeles Lakers, con la scelta numero 24, a selezionare il playmaker da Little Rock.

Il giorno del suo debutto arrivano 12 punti e 5 assist uscendo dalla panchina, niente di eccezionale, ma un inizio più che incoraggiante, anche se alla fine terminerà la stagione con appena 3.9 punti e 1.5 assist di media.

La svolta, perché c’è sempre una svolta, altrimenti non saremmo qui a scrivere di lui, arriva all’inizio della stagione 1999-2000: sulla panchina dei Los Angeles Lakers arriva Phil Jackson, non proprio l’ultimo degli allenatori in quegli anni. Jackson si porta dietro, da Chicago, Ron Harper, che prende il posto di Fisher, nel frattempo divenuto titolare. Da qui seguirà il Three-peat dei Lakers di Shaq e Kobe, uno dei momenti migliori della storia recente per i giallo-viola: funzionò tutto, ma proprio tutto. Se non che proprio in questo periodo Fisher salta la bellezza di 78 partite in tre anni per via una serie di piccoli infortuni. Ci mette comunque il suo zampino, come il canestro in faccia a Manu Ginobili con 0.4 secondi sul cronometro nelle finali di Conference contro i San Antonio Spurs, rientrando di diritto nella classifica dei buzzer-beater più spettacolari della storia.

Nelle due stagioni successive Fisher cresce molto cestisticamente, si costruisce un affidabile tiro dall’arco e sviluppa un’ottima comprensione del gioco: la sua vittoria più grande è quella di essere riuscito a far ricredere coach Zen, partito totalmente prevenuto e che non voleva dargli una chance.

In quel periodo però a LA non se la passano proprio bene, soprattutto dopo la partenza di Shaq a causa delle ben note diatribe con Kobe. Al termine della tremenda serie di finale persa contro i Detroit Pistons nel 2004, Fisher diventa free agent e a sorpresa decide di accettare l’offerta dei Golden State Warriors: come da pronostico, finalmente non più limitato dalla presenza ingombrante delle stelle di Los Angeles, arriva la miglior stagione a livello personale, chiusa a 13.3 punti a partita.

Sono centinaia le storie di giocatori con alle spalle un’infanzia difficile o problemi in famiglia, ma non sempre si racconta quello che ha dovuto affrontare Fisher nel 2006. Durante una serie di Playoffs con gli Utah Jazz, arriva una terribile notizia: alla figlia Tatum di appena 11 mesi, viene diagnosticata una brutta forma di tumore agli occhi che necessita un intervento il prima possibile. Tutto lascia presupporre ad un addio al basket, Fisher chiede a coach Jerry Sloan e ai Jazz di trovare di comune accordo una risoluzione per il suo contratto, per trasferirsi in California e stare più vicino alla sua famiglia. La risoluzione arriva, ma 19 Luglio il Venerabile Maestro firma ufficialmente il contratto che lo riporta ai Lakers, scatenando la rabbia da parte dei tifosi di Utah e dell’allora proprietario, il quale trovò “divertente” questa decisione.

E’ in questi anni a Los Angeles che Fisher acquisisce il rispetto nella Lega: un uomo prima che un giocatore, leader soprattutto lontano dai riflettori. Non si può negare che sia la squadra di Kobe, nonostante nel biennio vincente a roster figuri gente come Pau Gasol o Andrew Bynum, ma nello spogliatoio, quando Kobe ha dei dubbi, qualcosa da chiarire, il primo con cui si confronta è proprio Fisher.

E’ incredibile come un giocatore decisamente limitato e per nulla spettacolare sia riuscito a guadagnarsi il rispetto e la fiducia di due delle personalità più ingombranti della NBA come Jackson e Bryant. Voci di corridoio raccontano di un litigio agli inizi proprio tra il Mamba e Fish, con il secondo che al termine di un allenamento, stanco dell’atteggiamento del primo, avrebbe deciso di tirargli un pugno sul volto. Reazioni da parte di Bryant? No, nessuna. Da quel giorno in poi, “la leggenda vuole”, che i due siano diventati inseparabili. Che sia vera o meno questa storia non si è mai saputo per certo, ma è bello pensare sia effettivamente andata così.

Nei due titoli vinti contro Magic e Celtics, nel suo piccolo, come contro gli Spurs nel lontano 2004, Fish ci mette sempre e comunque il suo zampino, come in gara 4 delle Finals del 2009 contro Orlando: rimessa per LA che è sotto di 3 punti a 10 secondi dalla fine, palla a Fisher che segna con 4 secondi sul cronometro e la porta ai supplementari. Replay qualche minuto dopo, con il punteggio sul 91-91 a 30 secondi dalla sirena: Kobe penetra, scarica e D-Fish realizza la tripla che simbolicamente chiude la partita.

Episodi come questi hanno reso Fisher il compagno di squadra preferito dal Mamba: una dimostrazione di come gli attributi contano molto più del talento. Non bisogna dimenticare come Derek sia diventato anche il presidente dell’Associazione Giocatori, dopo anni e anni passati a studiare il ruolo come vice-presidente: a detta di tutti uno dei migliori di sempre, che ha saputo difendere i colleghi, ma usare raziocinio anche in situazioni particolarmente delicate. Come in campo.

Perché era questo Derek Fisher: determinato ma riflessivo, grintoso ma razionale.

 

Giovanni Aiello

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