Esclusiva BU, Cesare Pancotto: “Il basket italiano ha bisogno di una diagnosi corretta e poi della terapia”

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BasketUniverso ha avuto l’estremo piacere di fare qualche domanda a Cesare Pancotto, uno dei coach veterani del basket italiano, spaziando a 360° sul suo lavoro di allenatore e sul momento odierno della palla a spicchi in Italia e in Europa.

Ciao Cesare, è passato esattamente un anno da quando non sei più l’allenatore di Cremona: come stai e come hai vissuto questi 365 giorni?

È stato un anno di studio, di lavoro, di miglioramento, perché seguendo il basket a 360° ti accorgi che il miglioramento deve essere, oltre che dovuto, costante.

Puoi dirci se quest’estate sei stato contattato da qualche squadra e se c’è stata o c’è tuttora qualche trattativa?

Diceva un mio amico molto saggio: non contano i contatti, contano le firme. Ti risponderei positivamente solo di fronte alla concretezza di una chiamata, per il resto ho ricevuto molti attestati di stima e di rispetto nei confronti della mia professione e del mio lavoro.

Come stai vedendo l’exploit di Brescia e in generale l’equilibrio del campionato italiano visti anche i passi falsi di Milano impegnata in Eurolega?

Plauso a Brescia perché ha saputo trasferire l’energia di una buona stagione in un grande inizio di campionato, complimenti a Diana e alla sua squadra che è già la rivelazione anche perché è una di quelle che gioca meglio in Italia.
Dopo Brescia ci sono delle sacche: le “seconde squadre” che rincorrono brescia, le squadre che orbitano tra i Playoff e la salvezza che rendono vivace il campionato e cercano di ambire anche alle Final Eight e infine dietro ci sono tre squadre ma siamo solo a un terzo del campionato e credo che Reggio Emilia possa risalire sia per tradizione sia perché ha riequilibrato la squadra.
Per quello che riguarda Milano non credo sia solo un discorso di coppa e di impegno fisico, anche perché ci sono altre squadre che giocano la Champions League e l’Eurocup, credo più sia relativo a dinamiche interne e alla costruzione di un’identità di squadra che ha bisogno di essere sedimentata.

Vedo grande effervescenza a Torino, una realtà molto ambiziosa che io conosco bene, ha fatto investimenti mirati per crescere e per diventare una delle grandi squadre del nostro campionato.
Venezia e Avellino mantengono il loro status con qualche problema di infortuni che mina soprattutto la qualità degli allenamenti.
Mi fa piacere vedere le partite di Cantù, che in mezzo al campo fa le cose migliori, e faccio i complimenti a Sodini che fa giocare i suoi in maniera molto godibile e riesce a farli concentrare sul campo e non sugli aspetti fuori dal campo.
 

Ti aspettavi la finale dell’anno scorso tra due outsider come Venezia e Trento?

Non me l’aspettavo ma è stata la finale più giusta, hanno meritato perché Trento dopo essere partita male ha fatto una grande escalation mentre Venezia è stata più continua e ha imposto il suo gioco e la sua mentalità. Questo dimostra come non ci siano più i campionati certi ma ci sono i campionati delle possibilità, Venezia e Trento hanno colto questa possibilità.

Il momento del basket italiano, tra le difficoltà della nazionale e delle squadre di club nelle coppe, per arrivare ai settori giovanili, al numero di italiani e stranieri e alla mancanza di progettazione: c’è una ricetta univoca?

Credo che prima vada fatta una diagnosi corretta e poi si decida la terapia. Ma la diagnosi deve essere onesta e che guarda a tutti gli aspetti, credo che focalizzarsi solo sul numero di americani o italiani sia marginale. Guarderei più a quante palestre ci sono per far allenare i ragazzini e che tipo di formazione fanno nei settori giovanili. Questi due aspetti non sono la punta della piramide, per me sono la base e sono fondamentali perché diventano gli elementi che fanno crescere il giocatore di basket italiano. Il mondo del basket, soprattutto ad alto livello, guarda più all’aspetto economico che non a quello tecnico ormai, nazioni come la Russia, la Turchia, la Spagna stanno investendo economicamente sulle squadre. Noi siamo indietro da questo punto di vista e nella diagnosi dobbiamo tenerne conto, non dobbiamo essere presuntuosi per quello che eravamo 15 anni fa ma essere realisti su quello che siamo oggi. La terapia penso che debba partire dal guardare tutti al bene comune e non al proprio orticello, perché altrimenti si entra nell’ipocrisia. Tutti devono fare un passo verso gli altri e credere nella positività e nel futuro del basket italiano. Non bastano nemmeno i palazzetti da 5000 se non creiamo i presupposti e un prodotto godibile e fruibile per riempirli questi palazzetti. Non è facile ma va considerato il problema nella sua interezza e non nei singoli aspetti, altrimenti la toppa è peggiore del buco.

Tutto ciò può essere correlato al fatto che, due giocatori NBA a parte, i migliori italiani quali Datome, Melli e Hackett giochino all’estero?

È il cane che si morde la coda, in passato noi attiravamo i giocatori NBA mentre adesso è l’NBA che fagocita i giocatori europei migliori e lo stesso vale per le squadre che giocano una competizione come l’Eurolega. Mi viene in mente come esempio il campionato tedesco che è cresciuto e ora ha molto più appeal del nostro nel richiamare a sè i giocatori migliori. Questo appeal va riconquistato ma non puoi farlo in un anno e solo con affermazioni potenti nel dire ma inefficace nel fare. Servono idee chiare prima e poi lavorare tutti insieme nel svilupparle.

Un pensiero su questa diatriba tra FIBA ed Eurolega.

Si tratta essenzialmente di una lotta di potere e quindi di una lotta economica. Da una parte una Lega privata che ha creato un interesse in tutto il mondo perché è più vicina all’NBA e ha conquistato degli spazi difficili da portare via che guarda agli interessi delle società e del pubblico attraverso i migliori giocatori extra NBA. Dall’altra c’è una federazione che ha la responsabilità del territorio mondiale, che ha la cultura di creare manifestazioni che coinvolgano tutte le singole realtà e che cerca di riconquistare gli spazi che l’Eurolega le ha tolto. Sono due strade molto diverse e che quindi tendono a collidere con una lotta prettamente economica.

Parlando strettamente del tuo lavoro, in passato hai sempre focalizzato molto l’attenzione su aspetti come la gestione di un gruppo e la psicologia con i tuoi giocatori. Quanto conta questo nel tuo quotidiano?

Credo che quando si tratta tra uomini e quando c’è come riferimento prima l’uomo e poi il giocatore, sia fondamentale la conoscenza di una persona perché per motivare ed essere motivato bisogna conoscersi e sapersi ascoltare. Io credo molto nella chiarezza di un rapporto e prima di prendere un giocatore io voglio che sappia quale sarà il suo ruolo, la sua responsabilità e la sua gerarchia all’interno del gruppo, aggiungendo che questa è una fase dinamica e ogni status deve essere visto in un’ottica di miglioramento per aggiungere motivazione. Parlando poi di sport di gruppo e non individuale conta molto la capacità di connettere i vari giocatori, in campo bisogna essere una catena ed essere in connessione tecnica e motivazionale con una componente fondamentale come il rispetto per poter dare forza ulteriore al gruppo stesso. Dare forza al rapporto con la persona eleva il concetto di somma al concetto di sinergia.

Nel basket moderno quanto conta lo scouting di un avversario e la capacità di lettura di una partita o di una situazione di gioco?

Parlando di modernità dei nostri sistemi di attacco non credo conti il tipo di sistema perché per esempio il pick and roll si giocava anche 30 anni fa quando Dan Peterson chiamava il gioco L. Rispetto al passato è cambiato l’atletismo dei giocatori, io credo che il basket pian piano andrà a recuperare anche tanti aspetti tecnici e non più solo atletici. Il regolamento poi influenza molto, da quando ci sono i 24 secondi non si può più perdere tempo, va velocizzato tutto e ciò ha portato a sistemi di attacco a breve termine in cui di sistema si realizzano pochi punti, la maggior parte dei punti viene segnata in contropiede, in transizione con il tiro da tre punti, da rimbalzo in attacco, dalle rimesse e nel gioco uno contro uno. Il valore dei sistemi ha importanza ma la capacità del giocatore di interpretarlo con le sue doti tecniche, atletiche e di lettura sicuramente è un valore aggiunto fondamentale. Ad esempio il passaggio due mani-petto prima si usava in tante situazioni, ora lo fai solo per l’alley oop mettendo insieme tecnica e atletismo visto che si gioca anche oltre il ferro e non più solo sotto.

Cosa ne pensi della scelta di Sacchetti come coach della Nazionale?

Credo che sia stata una scelta ponderata, ogni allenatore che vada in Nazionale sia frutto del momento. Sulle sue capacità e sulla sua conoscenza del basket non si discute quindi direi che è stata una buona scelta.

Concludendo, sapendo che segui anche il calcio, che differenze vedi tra l’Instant Replay e la VAR?

Il primo pensiero è che il basket ha sempre creato novità (dall’Instant Replay, ai Playoff, alla formula a orologio, ai 24 secondi), nel calcio ciò avviene molto più di rado e in questo caso si è dovuta vincere una tradizione ma è stato anche sfruttato il momento. La seconda differenza sono le distanze e i tempi: 28 x 15 contro 110 x 60 circa se ricordo bene, il tempo usato va incidere nel tipo di scelte che i relativi sport hanno deciso di adottare come elementi di analisi con la tecnologia. Nel basket oramai c’è una capacità e una fiducia nell’uso del mezzo tecnologico con elementi compatibili con la velocità del gioco, nel calcio si sviluppa in un tempo più lungo ma che sono frutto dell’aspetto tecnico diverso tra i due sport e sulla novità dell’uso di questi mezzi che per entrambi devono essere in costante miglioramento.

Ringraziamo infinitamente coach Pancotto per la sua immensa gentilezza e disponibilità.

Michele Manzini

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