Garrett Temple ha raccontato dei curiosi aneddoti sui mesi a Casale e su coach Crespi

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Quest’anno Garrett Temple è un solido giocatore di rotazione per i Sacramento Kings: in California sta segnando 8.5 punti di media ed è ormai stabile in NBA da 9 anni. Nell’anno del lockout l’americano aveva giocato qualche mese anche in Italia, in Serie A con la maglia di Casale Monferrato: proprio a proposito di quell’esperienza, Temple ha raccontato a Hoopshype degli aneddoti curiosi riguardante l’allora coach dei piemontesi, Marco Crespi, definito “un pazzo”.

Quando ho giocato in Italia durante il lockout, la parte peggiore era che il nostro allenatore era pazzo. I coach serbi hanno la reputazione di essere pazzi, il mio era italiano, ma allenava come potete sentire in alcune storie dell’orrore riguardanti i serbi. Pretendeva molto e mi lanciava maledizioni senza sosta. Parlava inglese, ma se non lo avessi conosciuto avrei detto che quelle maledizioni fossero le uniche parole inglesi che sapeva. Quando un coach d’oltreoceano cerca di motivare uno dei suoi giocatori, a volte lo chiama “pussy” [“fighetta” in italiano, ndr]. Se sei americano, probabilmente ad un certo punto verrai chiamato pussy. E’ praticamente la parola principale in Europa per darti del soft, anche quando non ha molto senso, come quando sbagli un tiro o perdi palla. Bene, il mio allenatore mi chiamava pussy almeno cinque volte a partita. Si è arrivati ad un punto in cui gli ho risposto: “Ti faccio il c**o, fratello. Non va bene che tu dica queste cose”. Dovevo cercare il modo di restare calmo e sopportarlo. Ma lui era davvero pazzo e agitato. Ad un certo punto dovevamo giocare delle partite in diretta TV ed alcuni miei compagni mi misero in guardia: “Preparati, perché impazzisce ancora di più quando è alla TV”. Una volta, durante una gara che veniva trasmessa in televisione, un arbitro chiamò un fallo che non gli piacque, lui saltò dalla panchina ed ebbe uno scatto d’ira. Parlo di uno scatto d’ira come quelli che hanno i bambini di 3 anni. Stava sdraiato per terra di pancia, urlando con tutta la sua forza e tirando pugni e calci contro il pavimento. E’ durato circa 5 secondi e, da quel giorno, è ancora la cosa più selvaggia che abbia mai visto fare ad un allenatore. Ancora non ci credo.

Temple, nell’articolo, ha anche parlato di una forma di razzismo che percepì durante i suoi mesi in Italia:

Ho avuto a che fare con del razzismo in Italia. Per arrivare dal mio appartamento al posto in cui facevo terapia, camminavo all’interno di un parcheggio. Se avessi dovuto prendere la macchina, avrei dovuto fare il giro dell’isolato solo per arrivare all’entrata del parcheggio. Quindi semplicemente andavo a piedi e scavalcavo delle ringhiere. Avevo appuntamento più o meno alla stessa ora ogni giorno, e qualche volta incontravo una anziana donna italiana. Dove mi trovavo io quando ero in Italia [Casale, ndr] era una zona molto rurale, quasi campagna. Non c’erano neri in zona. Davvero, nessun’altra razza. Per due o tre giorni di fila vidi quella donna anziana. Un giorno iniziò ad urlarmi qualcosa, ma siccome non capisco l’italiano risposi soltanto “Chow!”. Un’altra volta stavo andando a fare terapia con un compagno di squadra che è del mio stesso colore di pelle, mezzo nigeriano e mezzo svedese, ma che giocava in Italia da quattro anni, quindi parlava fluentemente la lingua. Incontrammo la stessa donna ed appena iniziò ad urlarci contro il mio compagno impazzì. Ed era una delle persone più educate che io abbia mai incontrato. Davvero, ad oggi è nella mia Top 3 dei migliori compagni che abbia mai avuto. Iniziò a urlarle in italiano. Quando gli chiesi cosa avesse detto la signora, mi disse: “Sono stanco di quanto razziste siano molte persone qui. Non sopportano i neri”. Scoprii che la donna aveva detto: “Voi neri dovreste andarvene di qui. Perché state nel parcheggio? So che siete dei poco di buono”. E c’erano altri insulti razzisti, ma di base pensava che stessimo facendo qualcosa di male.

Infine l’ala dei Kings ha anche dichiarato che a Casale fu pagato regolarmente, ma che sapeva di alcuni colleghi, a roster in un’altra squadra di Serie A (senza fare il nome), che non erano stati retribuiti per quattro mesi.

Francesco Manzi

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