Jamie Smith: “Cara Italia ti sognavo da quando ero ragazzino.”

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Il playmaker nativo di Birmingham, in Alabama, è uno dei giocatori più interessanti che sono arrivati nel nostro campionato questa estate. L’apporto di Jamie Smith alla Red October Cantù, seppure in campo spesso “non è vistoso” (come dice lui stesso), è stato fin ora significativo e i suoi numeri, 14,4 punti e 4 assist di media a gara, lo confermano pienamente. Tuttavia il percorso per poter essere il giocatore che ammiriamo oggi è partito dal basso, molto in basso, come si può leggere in questa intervista rilasciata a “La Gazzetta Dello Sport“, dove parla di tutta la strada fatta prima di approdare in Italia, paese che sin da piccolo ha ammirato grazie al fratello Joe. Di seguito l’intervista:

Jamie ci racconti i primi passi.

Ho iniziato molto giovane, siamo 5 fratelli e tutti abbiamo ottenuto borse di studio per giocare a basket a livello collegiale. Joe è stato a Biella. Io sono esploso tardi, ho sempre dovuto lavorare duramente per guadagnarmi un posto. Sono andato a una scuola di 2° divisione, Alabama-Huntsville, da atenei di quel livello non tanti diventano poi professionisti.

Lei ce l’ha fatta.

Il mio sogno è sempre stato venire a giocare in Italia. Mi ci ha portato per la prima volta mio fratello Joe quando avevo 15 anni e mi sono detto “voglio fare come lui”. Ricordo che la prima partita che vidi fu una vittoria dell’Angelico ai playoff su Roma, da testa di serie n.7 andò in semifinale. Mi innamorai all’istante di tutto. Da allora ogni allenamento, ogni stagione, lavoravo per arrivare qui.

Percorso non semplice.

L’inizio è stato molto in basso, in Argentina con il Quilmes Mar del Plata. Mi aveva contattato un agente via Facebook, venni tagliato dopo un solo mese. Ero disperato, pensavo all’Italia che mi aveva fatto conoscere Joe e la vedevo lontanissima. Dubitai di poter coronare il mio sogno. Ma appena tornato dall’Argentina trovai un’offerta per giocare in Portogallo. Da lì poi Svizzera, Belgio, Ucraina, ogni anno un passo in avanti.

Soprattutto l’ultimo.

Col Khimki ho avuto la prima opportunità di mettermi in mostra perché abbiamo giocato la Champions. Anche se vivere in Ucraina è davvero duro… Ho chiuso la stagione come 2° miglior realizzatore a 18,3 di media. Lì mi sono reso conto di esser diventato un giocatore, di aver ottenuto il rispetto che cercavo. Così sono piovute offerte da tante nazioni.

La scelta è caduta su Cantù.

Ho detto a Joe, che è pure il mio agente, che avrei accettato solo l’Italia. La situazione societaria non era chiarissima, c’erano tanti punti di domanda ma non volevo lasciar passare questa chance. Sapevo che era un rischio ma mi sono detto che avrei fatto il massimo perché tutto andasse bene.

In campo non salta all’occhio ma fa tutte le cose che servono per vincere.

A volte quando non sei vistoso come me rischi di non essere notato, ti senti poco apprezzato. Ma se guardi il tabellino ti accorgi di quanto ho fatto. Spero di avere una lunga carriera qui in Italia. Gli allenatori e la gente che capisce di basket sa cosa porto alla causa. E poi in questa squadra devo bilanciare un po’ la follia di altri!

La vittoria su Milano in Coppa è stato il top della stagione?

Della carriera! Non avrei dovuto prendere quell’ultimo tiro, ero 8/8, la partita perfetta (ride). Siamo scesi in campo senza nulla da perdere. Coach Sodini ha fatto un grande lavoro di motivazione. Ci trasmette sempre energia positiva, cosa fondamentale quando torni in palestra dopo una sconfitta.

È un tifoso NBA?

Da ragazzino sfegatato per Kobe, ora di LeBron.

Chi vince l’anello?

I Warriors. Houston è forte ma non ha ancora dimostrato di saper fare l’ultimo passo.

E lo scudetto?

In un campionato dove Varese dà 20 punti a milano tutto è possibile, non vedo una squadra così superiore alle altre.

Kevin Bertoni

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