“Make it rain”: il migliore che (non) si sia mai visto

Rubriche

The greatest who never was

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La calda estate losangelina del 1971.
Sotto le Watts Towers c’è fervore. Non sono torri vere e proprie, qualcuno osa parlare di “attrazione turistica”, mentre secondo me sono semplicemente ammassi deformi di porcellana, conchiglie, pezzi di vetro; materiale recuperato, frutto del lavoro di un immigrato italiano nell’arco di trent’anni. Tant’è. C’è fervore, in ogni caso, non proprio lì sotto, poco oltre: Verbum Dei High School. Il fervore però non è improvviso, la gente non ha cominciato di punto in bianco a riempire la palestra liceale, dura da tempo: esattamente dal 1969. Tre anni, il ’69, ’70, ’71: record 84-4 per la squadretta locale.
Il fervore a Watts non è sempre un segno positivo, come non lo è quando questo sobborgo finisce sui giornali: l’ultima volta fu per delle rivolte razziali, a seguito dell’arresto di Marquette Frye, afroamericano in presunto stato di ubriachezza, il cui fratello Ronald chiede di poter riportarne a casa la macchina, privilegio non concesso dalla polizia. Sei giorni di inferno seguono il fatto. Watts diventa famosa.
Ma no, l’estate losangelina del 1971 non è calda per questo, la gente non si ammassa nelle strade di Watts per dar fuoco alle auto, il nome del sobborgo non si diffonde per il numero di arresti (che continuano ad esserci, per carità, se no che ghetto sarebbe?). No. La Verbum Dei sta infatti giocando la partita per il terzo titolo consecutivo della California Interscholastic Federation. Il copione è il solito: cinque minuti di relativa tregua, di partita combattuta. Poi quel ragazzo può cominciare a tirare. E ciaff, ciaff, ciaff… da ogni posizione, da ogni dove, in ogni modo. (Ancora ciaff). Le mani nei capelli ormai non si mettono più, si è abituati ad uno spettacolo del genere. (E intanto il ragazzo continua a segnare). Come si era abituati ai cinque minuti di calma, “concessi” su richiesta del suo coaching staff, non di quello avversario, da quel ragazzo per evitare di ammazzare subito la partita. Dopo si può scatenare. E si scatena, alla grande. Non piove cuoio nella rete, diluvia; è un diluvio ordinato, pulito, preciso, perfetto. Siamo indoor, ma quel ragazzo sta facendo piovere alla grande: miracolo.
Make it rain, dicono dagli spalti, make it rain.

Coach Tarkanian ai tempi di Long Beach
Coach Tarkanian ai tempi di Long Beach

250. Duecentocinquanta. Quanti college ci sono in America? Non so in quanti riuscirebbero ad elencarne così tanti. Però se da solo porti la tua squadra al sovracitato record di 84-4 in tre anni non passi inosservato, e 250 sono le offerte che il ragazzo riceve dal mondo universitario. Un discendente di immigrati armeni, che ci ha lasciato pochi tempo fa (riposi in pace), lo vuole con lui a Long Beach: Jerry Tarkanian, che da head coach in quegli anni (1968-1973) sulla panca dei 49ers riesce a perderne solo 17 su 133. Ma una corvette rossa basta e avanza per corrompere un ragazzo che oltre le sue gambe e qualche autobus non conosce altri mezzi per spostarsi: tutti a Cal State!

L’anno da freshman (seconda squadra, come da regolamento): 39 di media. “Sì va beh ma voglio vederlo contro quelli più grossi”. Anno da sophomore: 33 di media, 57 proprio contro quell’armeno che tanto lo voleva in squadra. Watts torna sui giornali, non a livello locale, ma nazionale: non torna da sola, ma accostata al nome di quel fenomeno. Faceva piovere nei palazzetti liceali, fa piovere anche in quelli collegiali. Non solo: il diluvio, come un uragano, lo accompagna ovunque, dai campetti di Compton, di Crenshaw, di tutta Los Angeles. Anche sotto torrido il sole californiano lui porta la pioggia.
Make it rain, si urla ovunque passi, make it rain.

Il mondo NBA quel ragazzo, di fatto, lo ha già sperimentato. E’ ancora liceale quando i Lakers lo invitano alla Summer League, giusto per concedergli il privilegio di umiliare da solo una formazione di rookies fatta sul momento. Ma non scherziamo, l’NBA vera e propria è la sua destinazione, la sua strada, il suo compimento.
I magnifici Sixers del 1972-1973 chiudono la stagione con 9 vittorie; fate voi la differenza con 82 per stabilirne il record. Qual miglior modo per ripartire, se non con un draft promettente e azzeccato?
“And with the first pick of the 1973 NBA Draft, the Philadelphia 76ers selected… Doug Collins! From Illinois State”. Già, Doug… futuro All-Star. Ma l’unica stella al rookie camp di Philly è quella 18esima scelta pescata dalla California. Doug Collins non si vede, è surclassato, “abusato” dice qualcuno da quel ragazzo. I media ormai ne parlano continuamente: il gioiello di Watts è sulla bocca di tutti, il 1973 è l’anno magico.
Ma è anche l’ultimo.

Il ragazzo è forte, fortissimo, ne è consapevole. E ritiene ridicolo il contratto offerto da Philadelphia, che secondo lui non è consono al suo reale valore. Dai, ho cancellato la vostra prima scelta e mi offrite questo? Ma i 76ers non vogliono trattare. Ciao, saluti e buona fortuna.
Quel mancato ingaggio lo segue anche quando sta per firmare con gli Utah Stars, nella meno fortunata (obbiettivamente) ABA: niente da fare, i problemi burocratici del mai firmato precedente contratto gli sbattono in faccia anche quella porta. Nel 1975 riprova con i Sixers ma la magia è ormai finita.
Non piove più dalle sue mani, almeno non in palestra: sull’asfalto continua a dominare. Persino contro il miglior difensore dell’NBA del 1987, cinque volte first All-Defensive Team, tre volte second: Michael Cooper, che ne prende 56. Cinquantasei. Lui, miglior difensore del momento, annientano da uno che non calcherà mai un parquet da professionista. Già: questa storia doveva finire in un altro modo.

Raymond Lewis muore l’11 Febbraio 2001. Muore solo, alcolizzato, divorziato. Muore martire della sua stessa passione: poteva salvarsi, se solo avesse accettato di amputarsi quella gamba. Ma come avrebbe potuto far piovere con una gamba sola? L’ultima volta che lo fece fu per un six pack di birre, una scommessa vinta con suo cognato: l’emblema della sua condizione, del suo talento, della sua storia. Riassunto tragicamente perfetto della sua vita. Quando accetta a malincuore l’amputazione è troppo tardi.
Ma Ray Lew di fatto era morto molto tempo prima, finito prima ancora di cominciare. Come sostiene Tarkanian, “the greatest who never was”.

Forse, veramente, il più grande talento mancato alla storia dell’NBA. Ma questa fantomatica lista di “GOAT” senza aver mai toccato i parquet delle stelle è lunga, lunghissima. Come Ray Lew se ne son persi altri, altri se ne perdono tutt’ora, altri ancora (si spera sempre meno) se ne perderanno. E’ giusto ricordarli così, per quello che sarebbero potuti diventare, e non per la fine che han fatto. Tristemente, aggiungo.
Non so se quello che dice Tarkanian, quello che dicono tutti quelli che contro Ray Lew han giocato, sia vero. L’unica cosa che so è che a Watts, alla Verbum Dei, da troppo tempo ormai non piove più.

Raymond-Lewis

Gabriele Buscaglia

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