The Portrait of Chris Mullin: quando la devozione si fa cestista. Storia di una tenacia che è diventata leggenda

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Un custode della Xaverian High School spegne l’ultima sigaretta, mentre guarda la baia newyorkese davanti a lui, oltre Shore Road, sulle scale che introducono alla scuola. Ha fretta il custode, e da buon Knickerbockers vuole correre a casa, mangiarsi un boccone, stapparsi una birra e attaccarsi alla poltrona: “Muoviamoci a chiudere tutto, stasera gioca Monroe” pensa tra se e se. L’idea di poter vedere “The Pearl” in tv alla sera l’ha aiutato ad arrivare a fine giornata, di pulire cessi e corridoi non ne ha più voglia. Fa un ultimo giro di verifica, per sicurezza; refettorio: chiuso; primo e secondo piano: chiusi; biblioteca: chiusa. Manca solo la palestra e finalmente potrà volarsene via verso i suoi Knicks.
Sta per scendere le scale ma qualcosa non va: dalla palestra arriva un rumore, in palestra c’è qualcuno. Non è tanto un rumore, è un suono quasi armonico, che si ripete: tum, tum, ciaff. “Ma non ci credo, chi può essere a quest’or.. ah già, quello nuovo”. Nuovo, ma evidentemente si è già fatto conoscere. Percorre di corsa le scale, entra in palestra e urla: “Mullin! Sono le sei e mezza passate, te ne vuoi andare a casa?”

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Chris Mullin è un topo da palestra. Come Leopardi passava le ore dei migliori anni della giovinezza e dell’adoloscenza nella mastodontica biblioteca del padre, Chris le passa in palestra. Otto, dieci ore di pallacanestro al giorno, che importa: la sua vita si divide in scuola, palla da basket e casa, non è contemplato praticamente nient’altro, se non il nuoto nei suoi primi anni. Ah no, un’altra cosa la contempla: la metropolitana. Non si accontenta della palestra, non si accontenta delle leghe liceali: il giovane Chris, borsa sottobraccio e una sola mania arancione in testa, viaggia praticamente ogni giorno dalla sua Brooklyn al Bronx, o dalla sua Brooklyn ad Harlem. Siamo tra gli anni Settanta e Ottanta, e la demarcazione tra quartieri neri e quartieri, se non bianchi, misti è molto più netta: e dove ci sono afroamericani, c’è lo streetball. A Chris non basta confrontarsi con i coetanei, nella Diocesi di Brooklyn ormai è una leggenda, lui vuole confrontarsi coi migliori e i migliori più accessibili sono gli eroi del basket di strada: ora, non so se siete abituati alla rossa o alla verde in quel di Milano, ma vi posso assicurare che le tratte nella Big Apple sono lunghe almeno il triplo. Da Brooklyn al Bronx sono almeno due linee, senza contare eventuali autobus, e tre boroughs: Brooklyn e Manhattan in sotterranea, poi Bronx sopraelevato. Per andare e tornare almeno due ore e mezza vanno via, se non di più, ma al giovane Mullin non importa, per la pallacanestro farebbe di tutto, una fissa e una devozione fuori dal comune, tipica solo di chi vuole diventare un campione. E di chi lo diventerà..

Chris Mullin ai tempi della Xaverian
Chris Mullin ai tempi della Xaverian

Gli anni dell’high school di Chris passano così, tra l’insegnare basketball in mezzo ai palazzi color mattone e l’insegnare streetball nella CYO, la lega sportiva giovanile cattolica. Mullin nasce a Brooklyn, il 30 Luglio 1963, in una famiglia irlandese, quindi di datato e devoto attaccamento alla chiesa del Papa, ed essendo che l’esperienza sportiva americana parte dagli anni del liceo, quella di Chris parte nelle high school cattoliche. I brooklyners sono gente strana: sono più uniti che mai, anche se vengono da ogni parte del mondo e sono di ogni etnia immaginabile, e guardano con sguardo fiero verso la City, verso Manhattan, sapendo di non aver nulla da invidiarle (almeno dal punto di vista umano). Ma tra tutti i brooklyners, quelli cattolici sono praticamente di due tipi: italiani o irlandesi. E tra tutte le scuole di Brooklyn, una delle più famose per i cattolici (soprattutto italiani) è senza dubbio la Xaverian High School, privata, solo maschile, localizzata nel graziosissimo quartiere di Bay Ridge lungo Shore Road, che si affaccia sulla New York Bay.
Mullin arriva alla Xaverian nel suo terzo anno, quello che per gli americani è l’anno da junior, dopo aver passato i primi due anni alla Power Memorial Academy, un altro istituto cattolico solo maschile della City, che accolse tra le sue mura anche Lew Alcindor. Con la canotta giallo-blu dei Clippers e il numero 17 sulle spalle, in onore di John Havlicek, Mullin vince il New York State Championship, il campionato liceale dello stato: inutile a dirsi, la sua fama lo precede, il suo nome e la sua voce cominciano ad espandersi. Ma non devono fare molta strada per essere accolte..
Il prototipo del giocare di strada con un’intelligenza cestistica fuori dal comune, la fusione perfetta tra streetball e pallacanestro convenzionale, affascina una figura distinta, che tra un maglione discutibile e l’altro sta scrivendo la storia del college basketball: Luigi Carnesecca, altro discente di immigrati, dal mondo ribattezzato Lou. Carnesecca è una delle più grandi leggende del basket nella City, e non sorprende che la sua guida plasmerà forse il più grande cestista mai uscito da New York. Senza giri di parole, tra newyorker ci si capisce, e Chris si sposta da Brooklyn (che un tempo era il Kings) al Queens, verso le Tempeste Rosse, i Red Storm.

Chris Mullin ai tempi di St. John's.
Chris Mullin ai tempi di St. John’s.

Chris Mullin entra a St. John’s per la prima volta nel 1981. Da freshman (primo anno) chiude una stagione da 16.6 punti di media, 3 assist e 3 rimbalzi, su 30 partite, con il record di punti segnati per un “novellino” in un anno. Meglio di così difficilmente si può iniziare, ma il buongiorno si vede dal mattino: a St. John’s ci rimarrà per altri tre anni, fino al 1985, e in tutti i tre anni sarà nominato Big East Player of the Year, unico ad aver ottenuto il riconoscimento per tre stagioni consecutive. L’anno di grazia è il 1983-1984, chiuso con la media punti più alta della sua carriera universitaria (22.9), che vale a Chris la convocazione nel Team USA del 1984 per le Olimpiadi in casa, quelle di Los Angeles. La selezione, che salirà sul gradino più alto del podio, tra le sua fila di soli universitari sfoggia anche tal Michael Jordan, prodotto di North Carolina, e un qualsiasi Pat Ewing, prodotto di Georgia: quasi un presagio, per qualcosa per cui dovremo aspettare otto anni.
La carriera al college di Chris, dunque, è stratosferica, tanto da riuscire a condurre i Red Storm alle Final Four del 1985, nel suo ultimo anno nel Queens. Carnesecca-Mullin è la coppia perfetta, figlia di New York, che per i biancorossi segna il la golden age della loro storia, ricca di tradizione e grandi nomi, ma povera di trofei: non sorprende che quelle del 1985 saranno le uniche Final Four dei newyorkesi, accompagnate dal primo posto nel ranking (quando l’ultima volta era successo nel 1951).
Il nostro eroe esce da St. John’s con 19.5 punti di media, 4.1 rimbalzi e 3.6 assist, con quasi 2 rubate e 3 palle perse a partita. Scontato dire che il suo futuro urla NBA a gran voce, ma, a differenza di Carnesecca, il destino chiama lontano: il figlio prediletto della Big Apple è pronto a lasciare casa sua, dopo 22 anni. E il futuro pur chiamando lontano da New York, lontano dalla baia davanti alla Xaverian, chiama comunque ad un’altra baia: nel draft del 1985, “with the seventh pick, the Golden State Warriors selected Chris Mullin from St. John’s University”. Chris Mullin è diretto in California, e questa volta il sole sull’oceano lo vedrà tramontare, non più sorgere, nel tragitto verso la palestra. Perchè gli anni passano, ma i grandi amori rimangono per sempre.

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Per Chris le prime due stagioni NBA vanno alla grande, tanto che nel 1986-1987 i suoi Warriors raggiungono le semifinali di Conference, uscendo contro i Lakers futuri campioni. Ma nella vita non tutto va a rose e fiori, anche se ti chiami Chris Mullin, anche se sei uno dei giovani più talentuosi della lega. Nella sua terza stagione, sulla panchina californiana arriva coach Don Nelson. E subito l’ex ala di Iowa si accorge che qualcosa non va: d’un tratto Chris sembra lento, pesante, e i compagni lo cercano poco, sia in campo che fuori. Mullin in quel periodo ama stare da solo e al buio, o in palestra a tirare, o in un bar a bere. Come il padre, come troppo spesso accade tra gli irlandesi, Chris Mullin ha problemi di alcool. Le cause possono essere tante: la distanza da casa, il cambio di vita, oppure una triste predisposizione genetica e familiare. La soluzione una sola: coach Nelson glielo dice in faccia, “se non ti fai curare con me hai chiuso”. Quello di Chris non è un problema gravissimo, tuttavia all’inizio tentenna, ma alla fine cede: perde gran parte della stagione in un centro di riabilitazione, ma come scrive Jack McCallum “Mullin entrò sporco e ne venne fuori pulito”. Tutto sistemato, come il padre era riuscito a smettere, ci riesce anche lui. Mai più un bicchiere toccato in vita sua: il Basket ringrazia. Eccome se ringrazia..

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Dalla tormentata stagione 1987-1988 è un continuo crescendo, sia statistico che di risultati: cinque stagioni consecutive con oltre 25 punti e 4 rimbalzi di media, cinque apparizioni all’All-Star Game, cinque apparizioni ai playoffs con i suoi Warriors. In tutto questo Mullin non è solo: è affiancato da Mitch Richmond e Tim Hardaway, coi quali forma il Run TMC e con i quali fa sognare un’intera costa, senza però mai arrivare fino in fondo.
Ma Chris Mullin ha vinto lo stesso. Le ore passate in palestra ai tempi del liceo, quelle passate nella palestra di St. John’s, quelle passate in quel di Oakland, sono per Mullin il passaporto per la più leggendaria squadra di pallacanestro mai costruita: il Dream Team, olimpiadi di Barcellona ’92. Chris Mullin è su quell’aereo diretto in Catalogna: la stessa devozione che gli faceva trascorrere ore ed ore sulla subway newyorkese, viaggiando da un campetto all’altro per costruirsi come cestista, ora gli permette di essere seduto e beato tra le stelle, in senso metaforico e non, brillando di luce sua. Chris Mullin è entrato nella leggenda (e mai ne uscirà).

Con Golden State Chris sfiora soltanto le finali di Conference, ma una volta passato ad Indiana la storia va diversamente: tre stagioni, dal 1997 al 2000, tre finali. Di queste tre finali, le prime due sono giri a vuoto, ma la terza è la volta buona: Mullin e i Pacers volano in finale NBA. Mullin ha la possibilità di vincere l’anello, dopo i due ori olimpici, ma davanti a se incontra i Lakers di Kobe e Shaq e sappiamo tutti che non ci è riuscito. Ma non è più il Mullin di una volta, quello da 20 a stagione, questo arriva a stento a giocare una partita intera, a metterne una decina: nulla da biasimargli, Chris è stanco, dopo quindici stagioni. Torna a Golden State, in una sedicesima stagione al termine della quale decide di allacciarsi le scarpe per l’ultima volta. Chris Mullin lascia il mondo del basket giocato: e a giudicare dal suo nome sul muro della Naismith Hall of Fame e sul soffitto della Oracle Arena, sovrastante il suo 17, qualcosa deve averlo lasciato.
Ora si dedica a quello del basket allenato, e speriamo, per il bene dei nostri Federico Mussini e Amar Alibegovic, che questa sarà un’altra storia da raccontare in futuro.

Chris Mullin

Non c’è molto da dire. Se Chris Mullin potesse tornare indietro nel tempo, a Shore Road, alla sua Xaverian, al giovane se stesso direbbe solo una cosa: “Perchè ti sei fermato? Continua a tirare”.

Chris Mullin: la devozione fatta cestista, la tenacia fatta storia. E quando il duro lavoro, e il tenerci fino in fondo, ti scolpisce indelebilmente nella leggenda, prima della pallacanestro newyorkese e poi di quella mondiale. Perchè i sogni si realizzano, basta avere la pazienza di aspettare, la pazienza di costruire centimetro dopo centimetro il tuo futuro, la pazienza di non cedere un centimetro.

E continuare a tirare.

Chris Mullin

Gabriele Buscaglia

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