Willie Sojourner, lo Zio che incantò Rieti

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Il Palazzo dello Sport: un palazzetto è come un piccolo tempio dove un pubblico si riunisce per assistere ad un evento, nel nostro caso le partite di pallacanestro, il quale però non ha entità superiori da celebrare, o meglio ci sono ma non si rendono conto di esserlo. C’è infatti un legame invisibile ma concreto, un sentimento di rispetto reciproco costruito sul sudore e sulle vittorie, che unisce una squadra e i suoi tifosi; entrambe danno tutto un nome e per i suoi colori, il minimo comune denominatore che li accorpa e che rende il palasport il luogo di culto per eccellenza della palla a spicchi.

E come ogni tempio che si rispetti, ogni palazzetto ha una dedica particolare: nei casi più comuni, i nomi vengono dati per collocazione (PalaRuffini, PalaTrieste…) o per figure di rilievo legate alla città (Paladozza) o all’impianto (Adriatic Arena), in ogni caso si tratta normalmente di personalità nazionali. Ma ci sono rari casi in cui un palazzetto viene intitolato a personalità di livello internazionale, e nel Lazio, in particolare nel comune e capoluogo di provincia di Rieti, il nome del Palasport è intitolato a un giocatore americano. Certo, gli americani nella pallacanestro hanno sempre fatto la differenza, ma lui non fu un atleta come gli altri: lui rimase nell’Umbiliculus Italiae (ovvero, ombelico dell’Italia) per sei stagioni diventando più che un beniamino; non solo fu un’icona che scrisse alcune delle migliori pagine cestistiche della storia di quella città di quasi 50.000 abitanti nel massimo campionato italiano e oltre, ma fu anche il simbolo di quel legame accennato poco fa, un legame che andava oltre le mura del campo da gioco e per il quale ancora oggi si ricordano e narrano le storie legate a quel personaggio. La sua squadra fu la storica AMG Sebastiani e il suo numero era il 18, come il giorno di questo freddo Ottobre 2015 in cui hanno deciso di commemorarlo e in cui la sua Rieti ha vinto il primo match al ritorno in A2: stiamo parlando di Willie Sojourner, ma per tutti semplicemente “Lo Zio Willie”.

Willie nacque nella vecchia Philadelphia del 1948, in una famiglia composta da papà George e mamma Dorothy assieme ad altri dieci bambini, in un epoca caratterizzata dal clima del dopoguerra, dalla crescente popolarità dell’Orchestra di Stokowski e che aveva appena accolto tra le sue anime Wilt Chamberlain ed Earl Monroe, due nomi, due future icone della pallacanestro americana. Nel corso degli anni della sua gioventú, Willie cresce nella Germantown High School (dove poi lo seguirà il fratellino Mike), ma a livello natatorio: era infatti nella squadra di nuoto, ma seguiva anche altri sport quali il football, corsa e anche il basket. Qui intervenne il padre che lo convinse a dedicarsi totalmente alla palla a spicchi per una futura università, per il quale dimostró le sue qualità all’ultimo anno scolastico. Dopo il diploma, non ebbe molte offerte, ma Hugh Sloan, GM di Dick Motta, coach di Weber State, credette nel potenziale del giovane, che si trasferí cosí nello Utah, tra lo spavento delle montagne, senza umidità e insetti e a piú di 2000 miglia da casa. Siamo nel 1967.

Il primo periodo non fu facile: poiché i freshmen non erano eleggibili per la varsity, ovvero la prima squadra, deve stare quindi sotto l’assistente di Motta, Phil Johnson, nel freshman team. No problem: 21,1 punti e 14,4 rimbalzi di media nelle 18 partite giocate gli valgono la promozione in prima squadra.

Qui però non ritroverà il coach che aveva creduto in lui: Dick Motta infatti firma per i Chicago Bulls, e Phil Johnson fu promosso head coach dei Wildcats. No problem, parte seconda: 19,3 punti e 14,1 rimbalzi di media per quel centrone di 2.05 con le mani da passatore varranno quattro titoli nella Big Sky Conference, anche se non vincerà mai un torneo NCAA. In campo era un giocatore caparbio, mai egoista ma sempre deciso a voler solo vincere, mentre fuori era un buontempone a cui piaceva stare in compagnia e scherzare, insomma il tipico personaggio che illuminava una stanza solo con il sorriso.

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Dopo il college, nel 1971 arriva il grande salto tra i professionisti: all’epoca non esisteva solo l’NBA, ma anche la sempre più crescente ABA che riusciva con contratti milionari a strappare i giocatori alla lega rivale. Per Willie si aprirono entrambe le porte, ma invece dei Chicago Bulls optò per i Virginia Squires della ABA. Qui incontró un personaggio, non uno qualsiasi, una superstar con cui avrà una delle piú ferree amicizie della sua vita: Julius Erving, con cui dividerà i quattro anni in ABA tra gli Squires e i New York Nets, con cui poi vinse il titolo ABA nel 1974. I numeri in quegli anni furono 6 punti e 4,8 rimbalzi di media, decisamente lontani da quelli collegiali; ma se sul campo la stella non cresceva, fuori fu protagonista di un paio di episodi legati proprio al suo caro amico Hall of Famer.

Partiamo dal secondo, cronologicamente parlando, quello forse meno eclatante ma comunque significativo: nel 1973, gli Squires ebbero un periodo di difficoltà finanziaria, talmente pesante che arrivarono alla decisione di dover mandare via un emergente Julius Erving da più di 30 punti a partita; bussarono alla porta i New York Nets che offrirono George Carter, i diritti su Kermit Washington e 800.000 dollari. Si trattava di una cifra golosa per la società arancio-blu che accettò, ma con una clausola: che oltre a Erving, fosse messo in conto anche Sojourner, l’inseparabile amico senza il quale l’allora n.32 degli Squires non sarebbe mai andato via. Un immagine di quanto fosse forte l’intesa tra i due.

Noterete che finora non è stato nominato il celebre nickname che ha reso grande una delle stelle più brillanti della storia del gioco; proprio a questo pensò Willie, nell’episodio più curioso e al contempo più incisivo per il suo grande amico: al liceo Erving venne soprannominato da un compagno “The Doctor” perché vivisezionava gli avversari in campo. Nella sua prima stagione ai Virginia Squires, i dottori però divennero tre: Julius, il medico e il fisioterapista della squadra. Poi Willie tiró fuori l’idea (“No problem”): per distinguerlo dagli altri “dottori”, Julius Erving sarebbe stato nominato ‘Doctor J’. Da quel momento un nickname divenne una leggenda.

La loro amicizia, almeno per quanto riguarda la pallacanestro, si interruppe al 1974: l’atletismo e il fisico di Willie non gli consentivano più di reggere il confronto con i migliori, fu tagliato dai Nets ed abbandonò l’avventura nel massimo campionato americano.

Chiusa l’ABA, andò a firmare per i Lancaster Red Roses, nella lega minora della EBA: qui, nonostante disputò una stagione da giocatore ritrovato, non convinse mai i vertici superiori a farlo rientrare. L’America gli chiuse le porte, ma presto la sua vita sarebbe cambiata, per caso, per fortuna, per ironia, scegliete voi il termine giusto: ma quell’estate del 1976 ricevette la telefonata che cambiò la sua vita.

Italo Di Fazi, GM della Sebastiani Rieti, chiamò casa Sojourner su consiglio di Richard Percudani, allenatore e segnalatore di talenti per la compagine laziale, per contattare non Willie, bensì Mike, il fratellino minore che ne aveva seguito le orme e aveva fatto le fortune dell’Università dello Utah. Fu Willie però a rispondere a quella telefonata: disse a Di Fazi che Mike aveva firmato con gli Atlanta Hawks e che sarebbe venuto lui al suo posto. “No problem”. Nonostante la sorpresa e lo scetticismo attorno al gigante di 2.05, sbarcò in Italia e già nei primi tempi mostrò il valore del gioiello e della leggenda che sarebbe diventato per la AMG: il giorno di arrivo all’aeroporto di Fiumicino aveva la mano sinistra fasciata per un incidente in auto, ma ancora una volta “No problem”, fu lui stesso a dichiarare che avrebbe giocato lo stesso. Disputò la sua prima amichevole contro una squadra estiva itinerante di giocatori americani, la Pro-Keds: con la mano fasciata, segnò 32 punti dominando l’area su ambo i lati del campo, lasciando gran parte degli addetti a bocca aperta. Tuttavia il coach Pentassuglia e Di Fazi volevano vederlo all’opera contro una squadra più forte, e fu così che lo convocarono per l’amichevole contro Siena. Siglò 43 punti aggiungendoci una vagonata di rimbalzi e assist contro il pitturato senese, scrollandosi di dosso tutti i dubbi. Willie non poté però firmare: non voleva un rialzo negli accordi del contratto, semplicemente la sua mano era fasciata. Willie era mancino. E da lì nacque il mito.

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Questo mito perdurò sei anni: tra i suoi numeri una promozione nel 1978, una finale di Coppa Korac persa nel 1979 contro il Partizan Belgrado dell’uragano Drazen Dalipagic, torneo poi vinto l’anno successivo contro il Cibona Zagabria, e quattro anni consecutivi di Playoff in Serie A a fianco di gente che poi avrebbe scritto grandi pagine della pallacanestro italiana quali Roberto Brunamonti, Domenico Zampolini e Gianfranco Senesi. In campo si vedeva un giocatore fenomenale, un centrone dotato di grandi movimenti e lettura di gioco capace di alzare il tasso tecnico e tattico della squadra per chiunque gli girasse attorno, un punto di riferimento nel pitturato che poteva fare tutto, dal passaggio per il compagno alla realizzazione in stile “Rainbow So”, il suo gancio imprendibile; fuori un personaggio burlone, molto alla mano, amante delle notti brave e delle donne ma soprattutto una persona sorridente e degna di fiducia, come dimostrò quando si diffuse la notizia che sarebbe andato via: uscì come un Papa alla finestra di casa sua e rispose ai manifestanti radunatisi sotto di essa “Willie no parte!”. Insomma, un cuore pulsante per migliaia di tifosi.

“Willie no parte” se ne andò nell’estate dell’82, giocando la sua ultima annata in Italia a Perugia e chiudendo la carriera a 35 anni, con quasi 4800 punti in Serie A e una lunga serie di aneddoti intorno alla propria figura. Per la Sebastiani Rieti si chiuse un’epoca di successi e sprofondò sempre più giù fino alla B2.

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Ed è da qui che sembrò ripartire la love story tra lo Zio e la squadra: nel 1992, quando fu contattato per allenare le giovanili. Non se ne fece nulla e, come era successo tante altre volte nella sua carriera, sparì dalla circolazione. Venne ricontattato nel 2005 da Gaetano Papalia, quando accettò un contratto che lo avrebbe legato nuovamente alla sua squadra, attraverso le giovanili della società.

Fu un avventura che purtroppo durò solamente 35 giorni: nella notte tra il 19 e il 20 Ottobre 2005 Willie stava tornando dal bar di Porta Cintia verso Vazia, a casa. Guidava abbastanza veloce sotto la pioggia, sulla Terminillese fece un testacoda e finì contro due alberi: le lamiere della BMW schiacciarono il suo corpo gigantesco, uccidendolo all’istante.

Fu uno shock per l’intera città e soprattutto per tutti quegli amici, anzi fratelli, che si era creato con il suo sorriso sul campo. Rieti pianse il suo idolo sportivo in quel Palaloniano dove la Sebastiani aveva vissuto con lui i propri anni di gloria e per questo l’impianto venne ribattezzato PalaSojourner. A commemorarlo venne pure il suo amico Doctor J, fu organizzato un match in suo onore: la cittadina laziale non lo dimenticò e oggi il presidente Giuseppe Cattani si è recato a rendere omaggio alla sua tomba.

Sono passati ormai 10 anni da quell’incidente, ma forse davvero non basta il ricordo del giocatore e soprattutto dell’uomo che è stato attraverso tutti gli episodi della sua vita, interminabili per un solo articolo.

“No problem”, era semplicemente lo Zio Willie.

 

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Federico Gaibotti

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