8 Agosto 1992: la partita che fondò una nazione

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E’ una torrida giornata a Barcellona in quell’Agosto del 1992. Sarà il clima rovente della Catalunya, sarà l’estate, ma in realtà si tratta dell’atmosfera che gira attorno al capoluogo di quella piccola comunità autonoma, sede della 25esima edizione dei Giochi Olimpici. Come è tipico di questi giochi, si respira entusiasmo, divertimento e competizione, ma per alcuni può significare di più.

Ancora una volta a giocarsi la testa del medagliere si trovano gli Stati Uniti e la Russia, o meglio, la squadra unificata degli stati dell’ex-Unione Sovietica senza le repubbliche baltiche, che avevano dichiarato la loro indipendenza un anno prima; Lituania, Lettonia ed Estonia, dopo decenni sotto il dominio sovietico, sono da considerarsi finalmente libere. Il mondo però ancora non le conosce, o meglio, non ha ancora attribuito quella importanza che una svolta storica porta per una nazione: infatti, non si parla di nazioni libere, ma di ex-repubbliche. Serve quindi un messaggio potente, per il quale ognuno di quegli stati venga chiamato con un nome che possa totalmente spezzare il legame che li tiene ancorati a quel regime che negli ultimi 40 anni ne ha controllato la vita.

Tra queste tre repubbliche, andiamo in particolare a prendere quella che ci interessa di più: la Lituania. La nazione baltica ha contribuito in maniera esponenziale al successo sportivo dell’Unione Sovietica, in particolare nell’ambito della pallacanestro: i lituani infatti hanno una dinastia cestistica invidiabile non solo in Europa, ma a livello mondiale, a tal punto che quattro anni fa l’allora trio delle meraviglie formato da Arvydas Sabonis (perno fisso dello Zalgiris Kaunas), Sarunas Marciulionis (leader dello Statyba Vilnius) e Rimas Kurtinaitis (anch’egli bandiera dello Zalgiris) eliminò in semifinale gli USA e diede la medaglia d’oro all’URSS. Nonostante ciò, quella medaglia appesa al collo dei tre fenomeni valeva meno di uno zero: i lituani infatti odiavano l’URSS, ma erano costretti a stare alle loro regole e al loro dominio per non avere ripercussioni sulla propria famiglia o peggio ancora sul popolo al quale sentivano davvero di appartenere. Quella medaglia anche se era d’oro, non era loro.

Quattro anni dopo però la storia è cambiata: la Lituania ha ottenuto l’indipendenza nel 1991 e ora può dimostrare al mondo la sua forza in quello sport nel quale l’eccellenza è geneticamente trasmissibile, in quell’evento che capita una volta ogni quattro anni e che diventa l’occasione giusta. Sotto la guida di Vladas Garastas, questi sono i temibili 12: Chomicius, Pazdrazdis, Visockas, Dimavicius, Brazdauskis, Krapikas, Kurtinaitis, Sabonis, Karnisovas, Marciulionis, Einikis, Jovaisa. Dopo aver superato agevolmente il girone di qualificazione, ai quarti si presenta il Brasile di Boas Villas e del fenomeno Oscar Schmidt: vittoria per 114-96 (Sabonis 32 punti e 13 rimbalzi, Marciulionis 29 punti e 10 assist). In semifinale però l’avventura per l’oro si chiude subito: di fronte c’è il “Dream Team” americano di Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird, John Stockton, Patrick Ewing e quegli altri giocatori che fanno parte della squadra di pallacanestro più forte mai assemblata. I lituani perdono con 50 punti di scarto in una partita che diventa più un divertimento che un match a viso aperto. Nell’altra semifinale i 28 punti del Mozart dei canestri Drazen Petrovic hanno eliminato gli Stati unificati. Quindi l’ultimo posto utile sul podio sembra uno scherzo del destino, ma in realtà nasconde dentro una rivalità e una prova di dimostrazione, per i russi di forza, per i lituani di libertà.

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E qui torniamo all’inizio della nostra storia. 8 Agosto 1992, Palau D’Esports, 9500 persone sono lì ad assistere ad un match che darà un impronta decisiva nel mondo europeo: Stati Unificati-Lituania, finale 3°-4° posto. Chi vince prende il bronzo, un posto sul podio e la propria bandiera issata sul tetto del palazzetto. La formazione baltica aveva già incontrato gli odiati rivali ai gironi incassando la prima sconfitta alle Olimpiadi; stavolta la posta in palio è altissima: non è gioco solo una medaglia, ma un’etichetta da togliere e un identità da conquistare.

La partita mostra subito un elevato agonismo: Marciulonis e Sabonis prendono in mano la squadra baltica, ma i rivali restano incollati e dopo il primo quarto siamo sul 14-16. Nel secondo periodo Volkov e compagni provano a prendere il controllo delle operazioni, ma Chomicius dà il via allo spiazzante break che vale il +10 lituano e consente alla formazione di coach Garastas di andare all’intervallo sul 33-39. Al rientro sul parquet, è ancora Volkov a rispondere alle iniziative avversarie: la partita si infiamma e le squadre si danno battaglia fino al termine del terzo periodo che si chiude sul 55 pari. L’equilibrio regna sovrano tra le due formazioni ma da un lato ci sono un centro dominante in Europa e una sfavillante guardia da NBA: sono loro infatti a piegare l’ago della bilancia a favore della neo-nazione europea e con le loro giocate trascinano i lituani al successo per 78-82.

L’apoteosi si compie. La Lituania vince una medaglia di bronzo con un nome nuovo, costruito sulla secessione, con un inno che quella squadra canta, seppur in modo stonato, a suon di fiumi di champagne nello spogliatoio dopo la partita con indosso la maglietta che i Greatful Dead avevano ideato per loro e che era diventata praticamente il simbolo di quei giocatori. La gioia di una stanza in un palazzetto si moltiplica a una nazione, che aveva interrotto la sua routine per guardare la partita e ora poteva sventolare la propria bandiera senza alcun timore. Probabilmente quella zona del Baltico fu l’unica a non curarsi della finale per cui il resto del mondo si sarebbe fermato qualche ora dopo. L’importanza di quella medaglia poteva dirla solo chi l’aveva vissuta davvero, e fu Sabonis a rivelarlo: “La medaglia a Seul era d’oro, ma questo bronzo fu la nostra anima“.

thebigfootdiaries.blogspot.com
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Il Dream Team numero uno rimase quella invincibile squadra che vinse l’oro, ma il sogno di libertà e indipendenza lo portò quel roster di quella piccola terra di neanche 5 milioni di anime, che per la prima volta poteva sentirsi chiamare con il proprio nome.

E il Dream Team probabilmente più importante dei due, era l’altro.” (Federico Buffa)

 

Federico Gaibotti

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