Bipolare

NBA Rubriche

Non c’è una linea retta su cui costruire quel che è stato il mio rapporto con Kobe Bryant. Si va dall’ammirazione all’odio, ma non ha a che fare con particolari sconfitte che il Black Mamba ha inflitto alla mia squadra.

Certamente la scelta di iniziare a tifare gli Orlando Magic nel 2009, l’anno in cui mi sono approcciato al basket, non è stato di grande aiuto. Ero però troppo inesperto per prenderla sul personale, tutti parlavano di Kobe come il miglior giocatore del mondo e io non avevo ragioni per detestarlo.

In particolare ricordo tre game winner tra il 2009 e il 2010, non devo nemmeno andare a controllare contro chi: Miami Heat, Milwaukee Bucks e Sacramento Kings, forse non in quest’ordine. Semplicemente il giocatore più determinante in circolazione. Ricordo con altrettanto piacere una scenetta nel corso di un incontro tra Lakers e Magic delle Finals. Quel criminale di Matt Barnes alla rimessa, Kobe in difesa su di lui, finta di pallonata in faccia con l’arancia che sfiora il naso di Bryant di un paio di centimetri, forse meno. Nemmeno una piega, un battito di ciglia. Masticata prepotente e quella strafottenza di chi sa di essere diverse spanne superiore. How can you hate that?! 

CatturaEppure la situazione precipitò in breve. Non voglio parlare di infortuni, anche se sono la ragione principale che ha portato Kobe ad essere questo negli ultimi tre anni. Il rapporto con Dwight Howard, all’epoca il mio giocatore preferito, fu l’inizio della fine. Seguì il maxi-contratto con i Lakers in piena ricostruzione e lo stile di gioco a dir poco accentratore nel momento in cui i ragazzi che dovranno rappresentare il futuro della franchigia avrebbero avuto maggior bisogno di aiuto, piuttosto che di venire oscurati. Non nego di essere stato fortemente contrario alla sua convocazione all’ultimo All Star Game, in quintetto poi! Non se lo meritava e avrei voluto vedere qualcun altro al suo posto.

Perché un giocatore dell’intelligenza di Bryant ha deciso di gettare via, consapevolmente, quelli che sono stati gli ultimi anni di carriera? Di anteporre il proprio orgoglio, la propria arroganza, a qualcosa di più importante? “Perché, in quanto Kobe, può permetterselo”, mi sembra una risposta insensata e superficiale.

La risposta, secondo me, è una: Mamba Mentality. Ai miei occhi non è una cosa esclusivamente positiva. Nel 2012 Kobe si ruppe il tendine d’Achille, si pensava che la sua carriera potesse finire, ma… Mamba Mentality. In questa stagione, tra l’1 e il 4 Dicembre, si è preso 38 triple in tre partite, segnandone 10. Mamba Mentality.

Negli ultimi anni, con l’esclusione della lettera al basket per annunciare il proprio ritiro (trovata di marketing ok, ma molto toccante), quella che in principio era ammirazione si è trasformata in astio, per non dire odio. Se prima il Kobe giocatore poteva comportarsi come faceva, ora non può più. Non è più quel giocatore, eppure non cambia atteggiamento. Ed è questo l’aspetto più positivo e allo stesso tempo più negativo di Kobe Bryant: la mentalità. Quella, al contrario del fisico che lo sostiene (o non lo sostiene), non è mai cambiata. Quella strappa un sorriso quando, nonostante i mille infortuni, lo spinge a tornare in campo per l’ennesima volta, anche se sembra l’omino Michelin. Quella mi urta quando è evidente che la soluzione migliore, per una volta, sarebbe cambiarla.

Il problema di Kobe Bryant è stato questo: essere sempre, costantemente, meravigliosamente e insopportabilmente Kobe Bryant. Ecco il motivo per cui il mio rapporto con il 24 è cambiato totalmente. Da ammirazione ad odio. Semplicemente bipolare.

Ma mancherà. Eccome se mancherà…

Francesco Manzi

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