A Tutto Pat Riley: gli Heat, le vittorie, Lebron e molto altro

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Tra poco meno di una settimana, Pat Riley spegnerà 70 candeline. Parliamo di una delle icone degli ultimi 40 anni di NBA, prima come giocatore (campione nel ’72) e poi come allenatore e dirigente, con molto più successo. L’attuale presidente dei Miami Heat può infatti vantare un palmarés incredibile: nove Larry O’Brian Trophy in bacheca, uno da giocatore, cinque da allenatore e due da presidente della franchigia.

Intervistato da Bleacher Report, in un botta-risposta lunghissimo e di cui non riportiamo ogni parola (potete trovare qui la versione completa in lingua originale), Riley ha parlato del proprio passato, ma anche del proprio presente, a cominciare dagli ultimi mesi che hanno visto gli Heat passare da potenziali campioni NBA a squadra che lotta per una posizione ai Playoffs.

Gli ultimi mesi non mi hanno scosso. Solo un po’ dispiaciuto. Dispiaciuto per Erik Spoelstra, Micky Arison [proprietario degli Heat, ndr] e per i nostri tifosi. Molto dispiaciuto.

Ovviamente, il colpo dell’addio di Lebron ci ha affossati. Tutti. Semplicemente ci ha abbattuti. Penso però che prendere Josh McRoberts e Luol Deng, specialmente loro due, e affiancarli a Chris Bosh, Dwyane Wade e Mario Chalmers sia stata una buona mossa per continuare a competere. E poi abbiamo pensato ad un piano per il 2016, anche se non avrei mai aspettato per prendere un giocatore come Goran Dragic.

Il nostro obiettivo è sempre stato quello di migliorare il più in fretta possibile. La delusione più grande penso sia stato vedere le condizioni recenti di Bosh dopo averlo rinnovato in estate. E’ stato davvero devastante per me, dal punto di vista personale. Per la sua salute chiaramente, ma anche per la squadra. E’ stato un altro duro colpo.

Per questi motivi è grandioso che questa squadra sia ancora in corsa, abbiamo la possibilità di fare i Playoffs e magari tirarne fuori qualcosa di buono. Abbiamo abbastanza per essere imprevedibili contro qualsiasi squadra nella Eastern Conference, non si può mai sapere. E amo questa cosa.

Wade e Riley festeggiano il titolo

Ma Riley è stato sempre riconosciuto, da allenatore, per i propri allenamenti duri, le proprie richieste sempre maggiori ai giocatori.

In una sessione di tre ore, li mettevo sotto per solo la metà. Pensavo che il duro lavoro rinforzasse i muscoli dei giocatori, le loro caviglie, i cuori, le menti, in questo modo nel quarto quarto sarebbe stato possibile giocare meglio dell’altra squadra.

Oggi è l’opposto. Questo comportamento verrebbe considerato rigido, un abuso. Ti incolperebbero per gli infortuni. Non penso che siano cambiati i giocatori, ma il mondo intorno a loro. Ai tempi in cui ero coach dei Lakers, intorno a loro non c’era nulla, era semplice, allenare era più facile. Ora viviamo in un mondo cibernetico, pieno di social network. E’ una distrazione? Penso proprio di sì.

Tutti i giocatori pensano che la visibilità, finire su YouTube, postare tutta quella roba sia importante per la propria immagine. Allora non c’era niente di tutto questo, solo il gioco del basket. Molto è cambiato, ma bisogna conviverci.

Dal 1995 al 2008, Riley ha poi svolto in contemporanea il ruolo di dirigente e di allenatore. Alla domanda se fosse un migliore coach o presidente, ha risposto così.

Allenatore, è quello che faccio meglio. Il mio ruolo di esecutivo è più collaborativo, sono quello che tiene insieme tutti. Mi manca allenare solo quando sono arrabbiato, perché vedo le partite dalla prospettiva di Spoelstra e degli altri coach, sono presente agli allenamenti, alle sedute video, nello spogliatoio. Ma non invidio ciò che i coach hanno incontrato al giorno d’oggi: lo schiacciante carico di lavoro che deriva dalla computerizzazione della pallacanestro. Per me era molto semplice.

Ma cosa pensa Pat Riley degli altri allenatori veterani, come Gregg Popovich e George Karl?

Posso vedere sulle loro facce ciò che vedevo sulla mia quando allenavo. Essere coach mi ha portato nell’oblio totale quando vi erano momenti brutti, prima nel 2003 e poi ancora nel 2008. Quando guardo ciò che fanno, la fatica e i viaggi, le tre del mattino: ho fatto tutto questo anche io. Per questo non lo voglio più fare, non è una vita buona e salutare. E’ una vita. Una vita molto intensa e competitiva, che però non è una vita veramente normale.

Nel 2010, insieme all’organizzazione degli Heat, Riley portò a Miami Lebron James e Bosh, formando i Big Three che raggiunsero quattro Finals, vincendone due, in quattro anni.

E’ stato un comportamento coerente. Per vincere hai bisogno di grandi giocatori, io ne ho avuti intorno a me per tutta la vita. Non serve uno scienziato spaziale per capire cosa serva: se riesci a mettere insieme tre grandi giocatori, circondandoli di buoni comprimari, sei già al di là della curva… Ci sono diversi modi per fare affari. A mio modo di vedere, non si fanno tramite il Draft, perché le scelte vivono in un mondo di mistero. Se una stagione è misera e passi tre o quattro anni di fila a prendere scelte da lottery, mi mandi al manicomio. E lo stesso accadrà ai fans. Quindi chi è che vorrebbe una cosa del genere?

Pat Riley e Lebron festeggiano il titolo 2013
Pat Riley e Lebron festeggiano il titolo 2013

Poi si passa a parlare di Lebron, di come sia maturato a Miami ma abbia comunque scelto di lasciarla per “tornare a casa”, a Cleveland.

E’ stata una delle cose che più mi hanno sorpreso. Le squadre come quella che eravamo stanno insieme, i giocatori non si separano perché sono consapevoli di ciò che hanno. Vedono quello che hanno vinto, vedono che c’è solo bisogno di qualche piccolo aggiustamento e non vogliono lasciare tutto questo, perché potrebbe non tornare mai. La cosa più scioccante per me è che invece un giocatore lasci che questo accada, e non sto parlando solo di Lebron. Forse ci stiamo confrontando con un’attitudine moderna che porta a pensare: “Bene, sono stato qui quattro anni, ora andrò là per qualche altra ragione”.

Sapete, tutta la storia del “tornare a casa”, io la capisco. Ma quello che avevamo costruito qui, ciò che avevamo sviluppato e che avremmo potuto sviluppare nei prossimi cinque o sei anni, con la stessa squadra, sarebbe potuto diventare storico. Per esempio, prendiamo Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e James Worthy, non sarebbero andati da nessuna parte. Con tutti e tre free agent, pensate che Magic avrebbe lasciato Kareem? O che Kareem avrebbe lasciato Magic? Pensate che Worthy si sarebbe separato da uno di questi ragazzi, o da Byron Scott o da Michael Cooper? No, perché sapevano che ogni anno avevano l’occasione di vincere il titolo. Quindi quello che è successo la scorsa estate per me è stato sorprendente. Dove saremmo potuti arrivare?

Nel momento in cui però è tutto finito, ci siamo mossi il più velocemente possibile per cercare di costruire un’altra compagine vincente. La squadra è rimasta unita.

Cosa pensa Riley del gioco del basket? La pallacanestro è una buona vita?

E’ una vita grandiosa. Il gioco cresce dentro di te, anche quando tutto va male. Qualche volta ho pensato di partire, viaggiare anche di più di quanto faccia ora, sfoltire la mia agenda per parlare e scrivere di più. Ho pensato anche alla libertà. La libertà dal management, dalle responsabilità, dal dover vincere, da tutto ciò che deriva dal vivere nel nostro mondo. La libertà dai media, anche se ho ridotto ultimamente il mio rapporto con loro perché non sopporto sentirmi parlare e sembrare che sia un esperto di qualsiasi cosa. Ovviamente, come tutti, anche io apprezzo i complimenti.

Che futuro aspetta i Miami Heat dopo l’addio di Lebron?

Non penso ci sarebbero dubbi sul fatto che, se James fosse rimasto, saremmo la squadra più forte della Eastern Conference, ma così non è. Non ci ho pensato per molto tempo, perché bisogna sempre guardare avanti, se non lo si fa si viene lasciati indietro. E comunque avevamo ancora un buon gruppo, avevamo Wade e Bosh e altri giovani interessanti.

Whiteside? Tutti sapevano chi fosse, semplicemente noi siamo stati i primi a dirgli di sì. Il passo successivo era quello di aggiungere un’ottima point guard [gli Heat hanno ottenuto Dragic il giorno della trade deadline, ndr], la prossima mossa è l’estate 2016. Penso che entro un paio d’anni gli Heat possano tornare ad essere la miglior squadra della Conference.

A Miami mi sento molto onorato e rispettato, quando si arriva ad una certa età la gente inizia ad avere questo atteggiamento nei tuoi confronti. Guardano alla nostra franchigia come ad una franchigia che vuole sempre vincere e competere per il titolo, Micky è la forza che guida tutto questo, il mio lavoro è invece andare là fuori e far succedere le cose.

Ma, fuori dalla pallacanestro, chi è Pat Riley?

Sono un tipo molto sentimentale. Molto tempo fa scrivevo lettere, visto che non avevamo i cellulari o le email. Anzi, forse le email le avevamo, semplicemente io le usavo.

Citando Robert Keidel, la parte più difficile nello svolgere il ruolo di coach o di dirigente è cercare di far fare ai giocatori cose che non vogliono fare in modo da permettergli di raggiungere i loro obiettivi. Mentre lo scopo del giocatore e del suo agente è di farci fare tutte le cose che non vogliamo fare per aiutarlo. E questo è grandioso. Certo c’è della tensione, ma è una bella tensione che non crea crisi ma che permette di comunicare. Ammetto di aver creato molta tensione con i miei giocatori, alcuni mi odiavano, probabilmente perché non sopportavano che gli urlassi contro, ma gli altri mi rispettavano.

Ritengo che l’unica cosa che un allenatore desideri dai propri giocatori sia, quando li rivedrà anni più tardi, un abbraccio. Qualsiasi cosa sia successa tra i due, è stata per una causa fantastica, la vittoria, che entrambi desideravano.

Poi l’esecutivo degli Heat è tornato a parlare delle condizioni di Chris Bosh:

Non abbiamo chiamato i Suns [per la trade di Dragic, ndr] fino alle sette e mezza [la deadline era fissata per le nove, ndr]. Intorno alle cinque e mezza mi aveva chiamato il dottor Harlan e mi aveva riferito delle condizioni di Chris Bosh. Ancor prima dello scambio, io lo sapevo, ma non ho riferito nulla a nessuno. Eravamo molto preoccupati per la sua salute.

Mi sono ricordato poi di quando Udonis Haslem ebbe un problema simile qualche anno fa, questo ha dato speranza non solo a me, ma anche a Chris, che tutto si sarebbe sistemato. Ma ovviamente è stata comunque una grande perdita per la franchigia e per i tifosi. Bisogna aspettare, è come se avessimo buttato via un anno. Non abbiamo a disposizione molti anni, quindi non se ne possono sprecare.

Riley e i suoi innumerevoli anelli

Infine uno dei personaggi più vincenti della storia della NBA ha concluso:

La mia motivazione è sempre quella di vincere. Cerco di mettere a disposizione di Erik [Spoelstra, ndr] tutto ciò che so e lui sta crescendo sotto i miei occhi. Stiamo arrivando ad una fusione tra come io allenavo e come lui vorrebbe che gli Heat giocassero. Faccio il possibile perché l’organizzazione rimanga quello che è, finché sarò qui vorrò portare altri successi a Micky e ai tifosi. Per questo sono triste a vedere la situazione attuale, pensando cosa saremmo potuti essere.

Ci sono stati bellissimi momenti come nel 2011 e nel 2012, non li dimenticherò mai. Però sono anche molto veloci, dieci minuti di euforia per tutti, la tua famiglia che scende dagli spalti, ed è tutto reale. L’istante più reale nello sport è proprio quando si ha successo tutti insieme, è un’emozione incredibile.

Se riuscissimo a tornare a vincere con me ancora qui, me ne andrei subito dall’arena. Io e Chris [la moglie, ndr] ce ne andremmo, prenderemmo una macchina, andremmo all’aeroporto e decolleremmo! Non ci sarebbe bisogno di festeggiare o raccontare a ESPN quanto sia bella la vittoria. Penso che tornare a vincere a breve sia possibile, siamo già buoni, miglioreremo.

Se dopo un altro titolo mi ritirerei? Probabilmente, anzi sicuramente. Non vorrei tornare indietro l’anno dopo per riuscirci di nuovo. C’è sempre un tempo perfetto per lasciare, ma non si sa quando arriverà il momento. Non si sa mai quando arriverà un altro titolo né quando sarà il caso di dire “Basta, fermiamoci”. Ho davvero avuto una carriera fantastica e sono sempre stato circondato da grandi persone.

Non ho neanche una cosa da rimproverarmi o da rimpiangere.

Simply, Pat Riley.

Francesco Manzi

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