Baron Davis, tra passato e presente al Festival dello Sport:”Ho lavorato duro per scoprire chi ero. Belinelli? Gli ho detto di non aver paura e divertirsi”

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Tutto esaurito nella platea del Teatro Sociale di Trento, dove Baron Davis ha da poco terminato il racconto del suo passato e presente al Meet&Greet del Festival dello Sport, organizzato con i giornalisti della Gazzetta dello Sport Davide Chinellato e Daniele Sandri; tra il pubblico che ha assistito all’evento han fatto presenza, come l’anno precedente, squadra e staff dell’Aquila Basket Trento, il presidente della Legabasket Egidio Bianchi più personaggi illustri dello sport come Gregorio Paltrinieri, da sempre grande appassionato NBA.

Un Baron Davis tranquillo, genuino e con un sorriso sempre pronto a rispondere con naturalezza alle domande poste dai giornalisti, domande che hanno riguardato principalmente i 15 anni di carriera NBA del nativo di Los Angeles tra Charlotte, New Orleans, Golden State, i Clippers e New York. In quella che è stata un’era per i grandi playmaker (Steve Nash, Stephon Marbury, Rod Strickland, Nick Van Exel sono citati da “Il Barone”), l’ex-giocatore NBA è rimasto soddisfatto de “la possibilità di giocare contro tutti, tutti mi hanno reso un giocatore migliore; tutti avevano le tracce e le abilità del ruolo, come ce l’hanno oggi Stephen Curry e Chris Paul in quella che è la posizione più dura nell’NBA. A rendermi grande è stato il duro lavoro di cui la personalità è una delle basi chiave; per me parte del gioco era capire i compagni, studiare il gioco e farsi rispettare per essere una point guard di livello”. Il mentore de “Il Barone”:”Il mio primo coach: mi ha insegnato a essere un leader senza pressioni, essere al comando quando avevo la palla e in questo senso il mio anno da rookie è stato un banco di esperienza di alto livello, ho dovuto imparare come controllare tutto. E’ difficile perchè nessuno ti ascolta. E’ dura: tutti vogliono la palla, tutti ti dicono di dargli la palla se vuoi stare nel gioco. Ho lavorato duramente per scoprire chi ero.” Lo sbarco in NBA con i Charlotte Hornets:”Avevamo un certo tipo di pallacanestro, una squadra piuttosto giovane che aveva gran voglia di fare bene e guardava con rispetto al passato di Zo Mourning e Muggsy Bogues; lui è stato uno dei miei preferiti, ho avuto anche il peso del suo n.1.

Si passa poi al 2002, quando comincia a emergere Davis come una superstar in una stagione agrodolce tra All-Star Game e i campionati del mondo a Indianapolis:”Un’evasione. Quell’anno dovevo prendermi cura della squadra, essendo l’unica superstar, ma dopo aver perso contro i Nets in semifinale di conference, volevo rilassarmi anche se sapevo che dovevo essere d’esempio. Per i campionati del mondo avevo rifiutato, volevo solo riposare, poi coach Silas mi disse che dovevo farlo. La Coppa del Mondo a Indianapolis fu un momento strano, essendo una città poco popolare; per la prima volta sentivamo che c’era la sensazione che non eravamo una squadra da Stati Uniti e lì sono arrivati i primi segnali della futuribilità del basket europeo; non erano solo molto versatili, erano incredibili. Quando giocammo contro l’Argentina, prima della partita avevamo saputo di questo Manu Ginobili, selezionato personalmente da Popovich, che sapeva che tipo di giocatore era: inarrestabile e Popovich lo sapeva. Dopo la sconfitta contro la Jugoslavia, nel corso dei tempi l’NBA è cambiata, è diventata più adattiva per giocatori non americani.” Il passaggio da Charlotte a New Orleans:”Folle per una città che quando arrivammo aveva la tradizione del football, in cui ogni fine settimana c’erano eventi, feste e concerti…insomma che c’è a New Orleans? Con il nostro arrivo, per la prima volta la città cominciava a capire la pallacanestro, ma forse la città non era pronta per una squadra di questo sport; eravamo una formazione underdog, ma più che il risultato nello sport si cercava di vincere sulle città. Quando giocavamo però c’era un sacco di traffico, a volte dovevi correre a piedi perchè il traffico bloccava tutto. E’ stato un anno di grande lavoro mentale per me, uno dei miei migliori anni, perchè ero sempre in palestra anche se avevo un solo giorno libero a settimana.” E infine l’All-Star Game nella città natale, Los Angeles:”Un sogno diventato realtà, ho lavorato duro per ottenerlo e ho comprato tanti biglietti per amici (biglietti molto costosi); c’era tanto divertimento in quel weekend con vip come Jay-Z, Puff Daddy, Mark Wahlberg, un momento nella mia vita personale in cui pallacanestro e intrattenimento si mischiavano benissimo.”

Poi nel 2004 il passaggio ai Golden State Warriors:”Chi muore? Questa era la sensazione che si provava quando sono arrivato; è stata dura, abbiamo cambiato 5-6 allenatori in quattro anni, volevamo portare energia e costruire speranze. Quando mi sono fatto male al primo anno, ho chiesto ai compagni di provare a spingere e quando sono ritornato dall’infortunio c’era un bel gruppo che nel 2007 si presentava con Jason Richardson, Al Harrington, Stephen Jackson, Monta Ellis, Troy Murphy, Mike Dunleavy, Sarunas Jasikevicius…non sapevamo che tipo di squadra eravamo, ma se avessimo giocato divertendoci, avremmo fatto bene. Si creò così un gruppo unito che insieme andava ai meeting, al cinema o a cena. Nell’anno in cui battemmo Dallas, sapevamo che potevamo farcela con Don Nelson come allenatore, che aveva allenato i Mavericks l’anno precedente, e ogni volta che vincevamo eravamo tutti in prima pagina fuori e tutti insieme in campo.” Una post-season nel 2007 a 25 punti di media nonostante un infortunio:”Come ce l’ho fatta? Determinazione. L’ho semplicemente fatto accadere. Ho dovuto risolvere i problemi alla schiena e fare la differenza, tramite il mio impatto dovevo dare vita alla squadra e concentrarmi su quello. Avere una mentalità dura e continuare. E’ stata la prima volta che gli avversari si son resi conto di dovermi marcare e io dovevo batterli. Dovevo segnare e distribuire il pallone per i miei compagni, dal pick&roll al post-up, tutto insomma. E Nelson non mi ha mai detto nulla, avevo completa libertà di agire.” E l’incontro con Marco Belinelli, preso poi sotto la sua ala:”Quando arrivò parlava poco inglese, aveva l’aria di uno che conosce l’inglese solo tramite l’hip-hop ma in realtà Marco non lo era. Quando camminavamo ci insegnava cori come “Grazie ragazzi” e dopo le partite mangiavamo italiano e lo faceva sentire a casa. Era un rookie e nessuno parla con i rookie. Così a cena, l’ho portato in un ristorante italiano e gli ho detto di non aver paura e di divertirsi, per i primi 5-6 anni sarebbe stato così“.

Dopo i Warriors cambia casacca tornando a Los Angeles, sponda Clippers, per costruire una squadra forte insieme a Elton Brand, che quell’estate cambia decisione e si sposta a Philadelphia:”Stavo diventando vecchio: non volevano onorare quello che avevo fatto a Golden State, così ho deciso di tornare a casa. Purtroppo per Elton Brand è andata male a Philadelphia a causa della micro-frattura alla spalla, ritrovandomi come unica superstar; ho lavorato con quello che avevo nello stesso modo in cui lo facevo ai Warriors. Con i Clippers pensavo di trovare qualcosa di più politico e diplomatico nell’organizzazione da parte di Donald Sterling.” Da qui cominciano a svilupparsi i primi interessi fuori dall’NBA:”Ho cominciato a realizzare cosa potevo fare per distrarmi fuori dalla pallacanestro, con la musica per raccontare la mia storia a LA; andavamo così male che ho pensato molto alla carriera fuori dalla pallacanestro tramite musica, film e documentari.

Infine la parentesi a New York con i Knicks:”Stavo male dovevo prendermi una pausa dal basket per far riposare il mio corpo.” Di tanti avversari sfidati nel corso degli anni, l’ex-NBA classe 1979 ha affermato di provare ammirazione per avversari come Kobe Bryant (“Uno dei migliori di sempre“, Dirk Nowitzki (“Un onore giocare contro di lui, ha ridefinito il ruolo dell’ala forte”), Tim Duncan (“Uno dei migliori giocatori mai visti per difesa, intelligenza e assenza di egoismo“) e LeBron James (“Un giocatore che compensa tutto in abilità e fondamentali di un livello estremamente alto“), che voleva convicerlo a firmare per gli Heat prima del passaggio nella Grande Mela.

E oggi? Proprietario di una propria enterprise che supervisiona diverse compagnie che includono squadre, brand, sponsor e tecnologie. Ha girato anche un documentario su South Central, zona di origine del giocatore in quella Los Angeles contaminata da gang e criminalità:”Fa parte di quel Baron Davis che non tutti conoscono: mi vedevi giocare con energia e intensità e questo era parte di me, mi sentivo connesso a quel mondo da cui provenivo e questa è stata un’opportunità per raccontare non solo la mia storia ma anche delle persone che fanno parte di questo mondo.”

Federico Gaibotti

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