24 Marzo 1999, ore 19:30.
Le sirene suonano, facendo da cornice all’assordante e continuo rumore delle bombe che esplodono, ed esplodono, ed esplodono ancora. Andranno avanti per giorni, precisamente 78, senza sosta, su tutta la Serbia e parte del Montenegro.
Per quasi tre mesi, dal 24 Marzo al 10 Giugno, ogni circa tre minuti decollarono uno o più dei mille aerei da combattimento da una delle trenta navi della NATO, su ordine diretto di Bill Clinton e dell’ONU, in direzione dell’ormai ex-Jugoslavia. Non partivano solo dal mare, partivano anche dall’Italia, da casa nostra.
Il fine? Fermare il massacro in Kosovo. Il mezzo? Bombardare qualsiasi cosa avesse una specie di rilevanza strategica, radendola al suolo. Così, 34.000 operazioni aeree in 78 giorni. Eh già.
Ma la rilevanza strategica secondo la NATO sembra alquanto relativa: il 23 Aprile 1999 viene bombardato il Centro Televisivo Serbo. Motivo? Era il principale organo mediatico del regime di Milosevic, nulla di più. Le 16 vittime con il massacro in Kosovo non c’entravano niente. Come del resto non c’entravano niente nemmeno le 3 vittime al Ministero della Difesa jugoslavo, una settimana dopo, nella cui esplosione furono distrutte alcune abitazioni civili nei dintorni; si può parlare di errore della NATO, come un “errore” fu il 7 Maggio la bomba che colpì l’ambasciata cinese a Belgrado, uccidendo altri 3 civili, tutti cittadini cinesi. Oppure l’errore nel colpire il reparto maternità dell’ospedale di Belgrado, togliendo la vita ad altri 10 civili che con le colpe di Milosevic non avevano nulla a che fare. Ma evidentemente era un errore anche aver bombardato un treno passeggeri su un ponte nei dintorni di Nis, per ben due volte consecutive, uccidendo 14 persone e ferendone 44. Già. Si è in guerra e la guerra non ha vincitori, nessun eroe: ma se per colpire la sede del partito di Milosevic, il razzo “incaricato” ha centrato esattamente il sedicesimo piano (quello giusto), né uno in più né uno in meno, qualche domanda ce la si pone. La NATO aveva dimostrato di poter essere chirurgicamente precisa nella ex-Jugoslavia, ma evidentemente non voleva esserlo.
Sono questi i frutti dell’Operazione Allied Force: 2.500 civili morti, di cui 89 bambini. Nel temprato cuore della Serbia, Belgrado, questi giorni hanno lasciato una ferita ancora aperta. I palazzi distrutti sono stati lasciati com’erano, squarciati, con cumuli di macerie per ricordare, ma soprattutto per non dimenticare che nelle tragedie che si son susseguite alla caduta della Jugoslavia anche i civili serbi furono vittime, oltre che della NATO stessa, dell’Uçk, dell’ARBiH, dell’HVO o dei loro stessi fratelli, come successe a Vukovar o in altre città, su ordine di Arkan.
Ogni sera, su uno dei tanti ponti sul fiume Sava, i cittadini di Belgrado formavano un cordone con addosso la scritta “WE ARE ALL TARGET“, siamo tutti dei bersagli.
A qualche minuto di cammino di distanza sorge un edificio, precisamente al 58 Bulevar Zorana Đinđića: è la Beogradska Arena, meglio nota come Kombank Arena.
La storia della sua costruzione si intreccia continuamente con la storia recente della capitale serba: iniziata nel 1992, serviva alla città come palazzetto principale per ospitare i campionati mondiali di Basket del 1994. Le continue sanzioni estere però svalutarono il dinaro jugoslavo e con lo scoppio della guerra civile nella federazione, oltre a perdere il diritto di ospitare i mondiali del ’94, i lavori rallentarono fino allo stop definitivo nel 1995, per poi riprendere nuovamente nel 1998 e fermarsi ancora un anno dopo a causa della nuova Guerra in Kosovo. Ripresa nel tardo 2000, dopo 20 anni dalla sua progettazione poté essere inaugurata, il 31 Luglio 2004. Al giorno d’oggi ospita le partite casalinghe di Eurolega della KK Crvena Zvezda, la Stella Rossa, e l’anno scorso aveva cominciato ad ospitare anche quelle del KK Partizan.
In campionato, nella ABA League, o nelle competizioni europee minori, queste due formazioni condividono, insieme all’OKK Beograd, il leggendario Hala Pionir. E’ difficile descriverlo se non ci si è mai stati, parecchio, ecco perché non riesco a trovare le parole giuste: l’effetto è verticale, gli spalti sembrano essere ammassati uno sopra l’altro a ridosso del campo di gioco. Durante le partite si può sentire anche all’esterno il rumore dei tamburi che battono senza sosta per ore, ed ore, e i continui cori che garantiscono quello spettacolo e quell’atmosfera che solo il tifo serbo e il suo “fratello” greco possono offrire. Non mancano i fumogeni, non mancano le coreografie, né qui né alla Beogradska Arena, che avendo una capacità nettamente maggiore (20.000 contro 8.150) regala colpi d’occhio sensazionali; ne avevano dato una dimostrazione i tifosi della Crvena Zvezda, fondata da una lega di ragazzi antifascisti nel 1945, considerata per tutto il periodo jugoslavo la vera e propria squadra dei Serbi, che in occasione del match di Euroleague con i fratelli (essendo le due tifoserie gemellate) dell’Olympiacos avevano lasciato a bocca aperta tutta l’Europa.
Nel Basket, come in tutti gli altri sport, i tifosi della Crvena sono i Delije, leggendari tifosi biancorossi che devono il loro nome agli eroi (delije vuol dire appunto “coraggiosi, impavidi”) Serbi che combattevano contro il dominio ottomano; meno elegante è invece il soprannome dei tifosi del Partizan, i Grobari, letteralmente “becchini”, dati i loro colori bianco-neri. Il KK Partizan, venendo fondato dall’Esercito Popolare Jugoslavo nello stesso anno dei cugini, mantenne sempre la fama della squadra dell’intera Jugoslavia.
Tra tutte le squadre di Belgrado (KK Crvena Zvezda, KK Partizan, OKK Beograd, Mega Vizura Beograd, BKK Radnicki, FMP Beograd e Superfund Beograd), il derby più acceso e sentito è ovviamente quello tra Crvena e Partizan.
La gloriosa YUBA Liga, dal 1945 al 1992, ha rappresentato la storia del Basket europeo, e vide vincere squadre serbe, croate, slovene e bosniache. Per nove anni consecutivi, dal 1946 al 1955, dominò la Crvena del grande Nebojsa Popovic. Poi un silenzio biancorosso durato fino al campionato 1968-69, per poi vincere l’ultimo titolo, il dodicesimo, nel 1972. Quattro anni dopo arrivò il primo e agognato titolo al Partizan, che arrivò al triplete sotto la guida dell’immenso Dusan Ivkovic nel 1979 con Kicanovic, il Petrovic serbo (Boban) e Drazen Dalipagic, vincendo la YUBA Liga, la Coppa Jugoslava e la Coppa Korac. Nel 1989 sfiorò l’impresa di nuovo, con una squadra che presentava Vlade Divac, Paspalj, Djordjevic, Sasha Danilovic, Zelimir Obradovic, con il leggendario Dusko Vujosevic in panchina: semplicemente, la Storia. Dopo la separazione della Slovenia, della Croazia e della Bosnia, dal 1992 la YUBA Liga divenne il campionato della Repubblica Federale di Jugoslavia (diventata poi Serbia e Montenegro): come si era capito negli ultimi anni della YUBA Liga precedente, la Crvena ormai era in declino: dal 1992 al 2006, alla Stella Rossa arrivarono solo tre titoli (1992-1993, 1993-1994, 1997-1998). Dei quattordici campionati disputati (di cui gli ultimi tre sotto il nome di Serbia e Montenegro), il Partizan ne vinse 8, mentre i restanti 6 vennero divisi tra Crvena e Buducnost.
Poi, nel 2006, un referendum in Montenegro ne ha sancito la separazione della Serbia. Era nata la Repubblica di Serbia, per la prima volta da sola. Insieme ad essa nacque anche il campionato serbo, tutt’ora esistente. Ma in otto anni, due colori, e un solo nome, han dominato la scena: bianco-nero, KK Partizan. Otto campionati, otto titoli del Partizan, praticamente tutti a discapito della Crvena Zvezda, praticamente tutti con Vujosevic in panchina. Ma non fidatevi troppo di questo dato, quest’anno sembra essere proprio l’anno della Stella Rossa, in ABA League, in Serbia e in Europa per una bella figura. La storia di questo campionato, come quello della nuova Serbia, è appena cominciata.
Belgrado ha una storia triste, martoriata, che rispecchia molto la storia della Serbia in generale. Non ha mai trovato pace, se non proprio nell’ultimissimo periodo. Contesa dai tre popoli diversi, conquistata dall’Impero Bizantino, dal Regno d’Ungheria, dal Primo Impero Bulgaro, poi dagli Ottomani, con la relativa Pace e il tentativo turco di cancellare ogni traccia della religione ortodossa dalla città. I turchi si alternarono agli austriaci, fino all’arrivo di Milos Obrenovic I, che nel 1817 la fece diventare parte del neonato Regno di Serbia, ovviamente come capitale. Poi il XX secolo, tre bombardamenti in tre conflitti differenti, 1914, 1941 e 1999, dalla quale la città ne è uscita sempre a testa alta, ricostruita come fece Stefan Lazarevic, ma con sempre più cicatrici. Che rimangono nitide, come ricordo a loro stessi, e come monito per il mondo intero.
Belgrado è attraversata da due fiumi, la Sava e il Danubio, dove il primo affluisce nel secondo: uno è rimasto blu, l’altro si è colorato di rosso.