In difesa dell’All Star Game

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Questo articolo ha come obiettivo quello di difendere, non a spada tratta, l’All Star Game in se, ma in particolare quello italiano, bersagliato ogni anno da critiche di tutti i tipi. Due anni fa io stesso scrissi un altro articolo contro l’All Star Game peggiore che ricordi, quello svoltosi ad Ancona, per intenderci: quello con la maglia sbagliata di Drake Diener .

La maggior parte dei suoi critici, definiscono l’evento come una copia di quello americano, ed effettivamente lo è. Negli Stati Uniti il primo All Star Game si disputò nel 1951, a Boston, in Italia si dovette attendere il 1982, oltre trent’anni. Non è una bugia che sia un’“americanata” e non lo si deve nemmeno nascondere, sarebbe sbagliato, oltre che intellettualmente scorretto. Le differenze organizzative, però, sono altrettanto evidenti: se negli States è All Star Break, nel senso che vi è proprio una pausa di circa una settimana, in cui è incluso l’All Star Game, qui da noi si fa tutto in poche ore, la Domenica sera, e forse è uno degli aspetti che andrebbero modificati.

Concentrare Slam Dunk Contest, Three-point Contest e partita delle stelle nella stessa sera, soprattutto mandando in scena i primi due nelle pause di gioco, non è una strategia troppo vincente. Non perché non ci sia lo spettacolo, che dipende esclusivamente o quasi dai protagonisti, ma perché si viene a creare confusione e frenesia, con zero pause. L’altra critica che può essere legittima è quella che afferma come in Italia l’All Star Game sia vissuto in maniera totalmente differente dai giocatori stessi. Se in NBA la convocazione per questa partita è un vanto, qualcosa che si sogna, qualcosa che si cita nel palmarès di un giocatore, nello Stivale molti, troppi, giocatori sono soliti rifiutare spesso e volentieri. Solo quest’anno Alessandro Gentile, Peyton Siva, Adrian Banks, Josh Owens, Jerome Dyson e Simone Fontecchio, addirittura sostituto dello stesso capitano di Milano, hanno dovuto dare forfait per problemi fisici. Il risultato è sicuramente un ridimensionamento dell’evento, con parte dei grandi nomi del campionato costretti a guardare dalla tribuna, riducendo così anche la spettacolarità, per forza di cose.

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L’All Star Game di Trento ha sopperito alla “scomodità”, se così si può definire, di essere stato organizzato in una città in cui sicuramente si respira basket, e di alti livelli, da qualche anno ormai, ma che allo stesso modo è distante dai grandi centri e dalle piazze che la pallacanestro ce l’hanno nel sangue da decenni. Forse anche per questo motivo gli spettatori del PalaTrento erano “solo” 3317 sui 4360 posti disponibili, ma è anche da aggiungere che in campionato, quando è di casa l’Aquila, il pubblico medio conta le 2963 persone, un dato quindi inferiore a quello di Domenica.

Per il resto, il divertimento c’è stato, volenti o nolenti. Volenti con la schiacciata di Awudu Abass, che ha aggiunto una pirotecnica maglia numero 24 giallo-viola ad una sua già mirabolante schiacciata, e con una partita che ha rischiato di concludersi punto-a-punto se non solo fosse stato per un paio di prodezze di Tyrus McGee. Nolenti se invece parliamo di Peppe Poeta, che sicuramente avrebbe preferito non trovarsi con il ginocchio del compagno Lockett in fronte, ma che è stato vittima e protagonista allo stesso tempo, perché il suo video ha raggiunto addirittura il produttore di Shaqtin’ A Fool. Eh sì, il BEKO All Star Game e Peppe Poeta, playmaker di Trento e nativo della piccola Battipaglia, potrebbero finire sulla bocca di Shaquille O’Neal dall’altra parte dell’oceano, tra qualche giorno.

Il risultato finale ha recitato 154-148, uno dei punteggi più alti di sempre (nel 2014, ad Ancona, nell’evento di cui sopra si accennava, la partita terminò con un misero 78-59). Cosa ci dice questo dato? Che le difese, nonostante due maestri come Dan Peterson e Valerio Bianchini in panchina, al fianco dei due preparatissimi Menetti e Buscaglia, hanno scioperato. Dovremmo indignarci o sorprenderci per questo? Certo che no. Non bisogna infatti dimenticare che il fine dell’All Star Game è quello di divertire fans e giocatori, oltre che dare a questi ultimi una pausa dalla continuità del campionato, e questo vale sia per l’America che per l’Italia. I sorrisi dei ragazzi in campo e dei bambini fuori, a contatto per un paio di giorni con i loro idoli, non fanno altro che confermarlo.

12489264_924821894232858_3133897674298563426_oE se la botta presa da Poeta, il finale di partita, la schiacciata di Abass, i commenti ironici (e allo stesso tempo anche amari) di coach Buscaglia dopo l’infortunio del proprio giocatore e l’accenno di difesa 1-3-1 di Peterson anche in un All Star Game ci hanno divertiti, allora l’obiettivo è stato raggiunto. Quello di quest’anno non è stato l’evento perfetto, non si è lontanamente avvicinato agli standard a stelle e strisce (e non potrebbe farlo anche se perfetto, visto il diverso talento degli interpreti), ma ha segnato un netto miglioramento rispetto agli anni scorsi.

Per questi motivi, ben venga l’All Star Game italiano negli anni a venire, con la pretesa però di ulteriori miglioramenti, anche nel formato, per renderlo più accattivante e far ricredere, una volta per tutte, i critici.

Francesco Manzi

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