Luca Banchi è da tempo uno dei migliori allenatori italiani in circolazione. Una lunga carriera di successi: prima i sei scudetti con la Mens Sana Siena (5 da vice di Pianigiani, uno da capo allenatore), poi l’avventura a Milano dove riuscì a riportare il titolo in Lombardia dopo tanto tempo, seguita dalla breve parentesi torinese fino alla sua ultima missione di salvare Pesaro. Il coach nativo di Grosseto, in esclusiva per BasketUniverso, ha ripercorso le tappe più importanti della sua carriera.
Nel corso della sua carriera ha avuto il piacere e l’onore di allenare in piazze storiche come Siena, Milano e Torino. Partiamo dalla Toscana. Cos’ha significato per lei vincere lo scudetto con la “sua” Siena? E cos’ha provato quando tutto è stato cancellato con un colpo di spugna?
Sono state emozioni fortissime. Ricordo nitidamente che nel mio primo anno lì, quando ero assistente allenatore, vincemmo subito lo scudetto. La mia prima volta da capo allenatore, al mio settimo anno quando Pianigiani andò al Fenerbahce, la squadra era molto ridimensionata e il club condizionato dai provvedimenti: otto dodicesimi della vecchia squadra cambiarono casacca e non avevamo più un budget importante come gli anni precedenti. Avevamo tante incognite e anche il percorso durante la stagione fu diverso dal solito: Siena non dominò più in lungo e in largo, ma arrivammo 5° in regular season. Poi però ci facemmo trovare pronti sia in Coppa Italia che in finale scudetto. Fu incredibile vincere scudetto e coppa in un contesto dove da dominatori assoluti eravamo diventati paradossalmente outsider.
Aver visto, dal punto di vista burocratico, cancellare alcuni di questi successi non riduce le mie emozioni. Fa specie pensare che si sia cercato di ridurre tutto a questioni legate a qualcosa che non fossero gli effettivi meriti conquistati sul campo. In particolare, quell’ultimo anno la squadra non era costruita all’insegna degli alti salari: Hackett reclutato da Pesaro, Ortner era inattivo, Bobby Brown era un americano di un “mercato piccolo”, Matt Janning arrivò da una squadra che era retrocessa in A2. Non era una squadra di grandi nomi, era pensata per cercare di rimanere a certi livelli di rendimento solo grazie al lavoro. Si è voluto ridurre tutto al fatto che ci fossero dei vizi, come se si volesse sminuire il fatto che eravamo stati i migliori. Questo mi ha rattristato, vedere certi provvedimenti e soprattutto certi giudizi che hanno cercato di sminuire quello che ci fosse realmente alle spalle di quel progetto che verteva sul lavoro e sulla creatività. Se questo nei registri poi risulta come titolo revocato, ribadisco che le emozioni non si revocano e la consapevolezza di aver fatto qualcosa di unico e straordinario resta.
A Milano è ricordato come “l’allenatore che ha riportato Milano alla vittoria”. L’Olimpia ha sempre avuto squadre molto forti ma non era mai riuscita a conquistare il titolo, poi è arrivato lei e sappiamo com’è finita. Come ci si sente a essere ricordato come un “idolo” dalla tifoseria meneghina?
Non lo sono, non lo sono mai stato e non lo sono a maggior ragione adesso – ride, ndr. È stata un’esperienza in chiaro-scuro quella a Milano. Sono arrivato con grande carica ed entusiasmo. Ho vissuto una prima stagione esaltante, riuscendo ad andare oltre ogni pronostico e sfiorare le Final Four di Eurolega. Era una squadra costruita con l’idea di riavvicinare il pubblico milanese all’Olimpia e credo che questo sia il principale successo di questa mia esperienza. In quel primo anno avevamo letteralmente vissuto l’abbraccio della tifoseria con il Forum spesso esaurito con un tifo calorosissimo. Il pubblico milanese riscoprì il gusto di vestirsi di rosso con il motto “Red shoes are back”. Quella era una squadra che aveva fatto appassionare i tifosi non solo sulla scia del talento di giocatori di classe come Keith Langford o Ale Gentile, ma anche grazie all’atteggiamento coriaceo e combattivo di giocatori come Moss, Hackett, Melli e Cerella, che diventarono idoli della tifoseria.
È stata una squadra piacevole da allenare e, credo, anche da veder giocare. Non fu semplice, perché in certi frangenti sembrò un cammino esaltante e inevitabilmente proiettato verso la conquista dello scudetto, ma in realtà tra noi e il titolo non mancarono le difficoltà. Ai playoff vincemmo 3-2 contro Pistoia una serie tutt’altro che scontata, fu 4-2 con Sassari dove vincemmo 3 partite fuori casa, e poi ci fu l’incredibile serie contro Siena. Particolare per me, ma anche per ragazzi come Kangur, Moss e Hackett che arrivavano proprio da Siena, e portarsi dietro il ruolo dell’ex in questi palcoscenici non è assolutamente semplice. E tutti ricordano quella pazza gara 6 a Siena con il tiro di Curtis Jerrells, uno dei protagonisti di quella stagione.
Poi è arrivato lo scudetto che celebrammo con soddisfazione e credevo che questo potesse essere il presupposto per costruire qualcosa di solido e duraturo, ma purtroppo nel nostro mondo le cose cambiano molto velocemente. Fu un’estate piuttosto travagliata: dopo il caso Hackett non fu semplice ridisegnare gli equilibri della squadra e tantomeno ritrovare sintonia con un giocatore come Melli che quell’estate si aspettava un’estensione contrattuale che non arrivò e scelse di giocare un anno con il contratto in scadenza. Cercammo di inseguire nomi importanti che però non centrammo come E’Twaun Moore come guardia, che sfumò in conclusione, ma anche Andres Nocioni. Sul mio destino ebbe un ruolo aver trovato lungo la strada la miglior versione di sempre della Dinamo Sassari, una squadra d’incredibile talento: penso a Logan, Sosa, Dyson, Sanders e Shane Lawal. Loro in occasione degli appuntamenti chiave come la Supercoppa, la finale di Coppa Italia e in semifinale scudetto furono capaci di batterci, giocando una gran pallacanestro. Questo ebbe un ruolo importante nel giudizio di una stagione che, una volta giunta al termine, mi costò l’esonero.
Forse il più grande rimpianto è quella gara-1 contro il Maccabi che sembrava vinta. Con quel successo, sareste andati alle Finale Four… di Milano?
Partire con un 1-0 ci avrebbe dato un vantaggio emotivo importantissimo che ci avrebbe anche fatto sciogliere un po’ la tensione accumulata per l’esordio in un palcoscenico di quel tipo. Inoltre, in quella serie stavamo rinunciando a Gentile, un giocatore che per noi era fondamentale perché era quello più adatto per far saltare le scelte difensive del Maccabi. Non è poi un caso che Langford, nonostante lo si ricordi per aver sbagliato il libero a 1 secondo dalla fine che ci avrebbe dato la vittoria, ci tenne a certi livelli per tutta la serie fino a che nel quarto periodo di gara 4 fu preso dai crampi. Questo fa capire quanto impegno è richiesto per giocare partite di questo tipo, con un carico tecnico, fisico, nervoso elevatissimo. Fossimo partiti 1-0 non so se l’inerzia della serie sarebbe cambiata. Visto anche poi come sono andate le Final Four e, soprattutto, la finale con il Maccabi che riuscì ad alzare il trofeo con finali di gara rocamboleschi diciamo che sembrava destino, anche se noi non siamo stati troppo bravi a indirizzarlo.
Una piazza molto calda che sembrava potesse tornare tra le migliori d’Italia era Torino. Con lei le cose stavano andando bene, sia in Italia sia in Europa. Poi però qualcosa si è rotto con la dirigenza e ha lasciato la panchina a metà stagione. Dopo tanti anni e tutto quello che è successo, possiamo sapere i veri motivi che hanno portato al suo addio alla panchina gialloblu?
Era stata mia cura evitare di entrare nel dettaglio di certi particolari che avrebbero rischiato di danneggiare la credibilità del programma. Non dimentichiamoci che quella era una squadra che portava una denominazione gloriosa come quella dell’Auxilium, che si riaffacciava al basket europeo e che aveva sulle maglie il brand Fiat. C’era da parte mia la volontà di far passare, per quanto possibile, delle dimissione del genere sottotraccia. Venivo da due anni di inattività, avevo accettato questa avventura con entusiasmo anche contagiato dalla passione del presidente Forni e dei suoi dirigenti, ma anche con la consapevolezza che Torino avesse la tradizione, la passione latente dei tifosi e le strutture per tornare ad alto livello.
Le difficoltà ci furono sin da subito: c’era distanza tra quella che era la mia visione nella conduzione della squadra e del club e quello che era lo stile di certa dirigenza. Non erano mancati momenti di conflitto e tensione che avevano portato già precedentemente all’idea che si potesse arrivare a una rottura. I risultati mascherarono l’evidenza, fino a che arrivammo a un punto di non ritorno. Decisi di farmi da parte rinunciando ad un pluriennale e alla possibilità di portare Torino dove io credevo meritasse di stare, ma onestamente la situazione stava diventando insostenibile.
In quell’Auxiulium sono passati molti giocatori forti. Noi vogliamo soffermarci su David Okeke. Lei lo lanciò quando nessuno sapeva quasi come si chiamasse. Oggi il classe 1998 gioca in Islanda. Non pensa che il suo talento sia sprecato per giocare in un campionato non di primissimo livello com’è quello islandese? Perché in Italia nessuno punta su di lui?
Ci sono ragioni mediche a impedire che David possa giocare nel campionato italiano. Quanto accaduto lo ha costretto a degli interventi che rendono al momento impossibile per lui l’ottenimento dell’idoneità. Ha avuto la possibilità di giocare prima in Georgia e ora in Islanda, ma purtroppo non tutte le porte dei campionati sono aperte. Ricordo un ragazzo straordinario di grande talento. L’avevo scoperto la stagione precedente con Frank Vitucci che ebbe l’intuizione di dargli delle chances. Vidi un ragazzo con grandi qualità e non esitai a farlo giocare in quintetto perché meritava quelle opportunità. Sembrava predestinato, poi purtroppo la vita nasconde l’imprevedibile, e quello successo da gennaio in poi è molto triste.
Torniamo nel presente, a Pesaro. Le ultime due vittorie, prima della sconfitta con Brescia, non solo hanno riportato grande entusiasmo all’ambiente, ma potremmo anche definirle come l’emblema del lavoro fatto finora. Lo spogliatoio appare molto più unito, la squadra gioca insieme e si vedono molti meno “uno contro tutti” e soprattutto in difesa c’è più voglia di piegare le gambe e lottare su ogni pallone. Ci può dire come ha impostato il lavoro negli allenamenti tanto a livello tecnico quanto mentale?
Arrivato a Pesaro ho ereditato una situazione complessa, nonostante la stagione fosse iniziata da poco. La squadra aveva evidenti deficienze strutturali e anche dal punto di vista caratteriale faticava a esprimere il proprio gioco. Non è stato semplice. Piano piano sembrava avessimo trovato una nostra linea di rendimento quando sono arrivate 5 vittorie in 6 partite: era il momento più alto, davamo l’impressione di aver trovato anche una nostra fisionomia e identità. Però queste sono stagioni particolari dove staff, giocatori e ambiente devono dimostrare una resilienza e un’anti-fragilità che sono intrinseche nel momento storico che viviamo. Le difficoltà sono dietro l’angolo: il Covid si è manifestato nel nostro momento migliore e ci ha rallentato. Io non ne faccio un alibi, tanto è la storia di tutte le squadre del campionato.
Abbiamo faticato a riprenderci dopo il break delle nazionali, infatti eravamo rientrati senza il play Larson. Non solo abbiamo dovuto ridisegnare un’altra volta gli equilibri, ma nelle tre settimane di pausa andavamo in palestra solo in 6/7. Non puoi competere a certi livelli se durante la settimana non puoi lavorare bene. Poi, piano piano, siamo tornati ad avere un regime più consono e, con l’arrivo di Mejeris, ci siamo rinforzati vicino a canestro. Ci aspettano altre 7 partite che sono durissime e se guardiamo il calendario alcune sono proibitive. Dovremmo andare oltre i nostri limiti ogni volta, ma abbiamo bisogno di allenarci bene, stare in salute e… anche un pizzico di culo.
Questo è un momento delicato, dobbiamo essere forti, decisi, perché quello che accadrà nelle prossime settimane metterà alla prova i nostri nervi. È un appello che faccio a tutto l’ambiente: questo è un momento in cui io e la squadra abbiamo bisogno di sentire accanto sostengo e fermezza perché sarà durissima e la salvezza si giocherà all’ultimo pallone.
Con la partenza di Larson, in queste ultime gare Vee Sanford pare aver fatto un netto salto di qualità: molto più nel vivo del gioco e, assieme a Lamb, pronto a prendersi in mano la squadra senza paura. Gli ha chiesto di prendersi più responsabilità?
Vincent non ha mai nascosto la sua delusione per una stagione in cui non riusciva a trovare quel feeling che era solito avere. Era il primo a essere frustrato da questa situazione. Io ritengo che fosse anche un po’ condizionato da qualche situazione personale e familiare che ne ha frenato il rendimento. Si dice sempre che quando sei un professionista devi essere capace di estrapolare le dinamiche personali da quelle professionali, ma d’altronde siamo uomini. Ora pare aver trovato un po’ di stabilità nella sua vita e ciò si sta riflettendo sul rettangolo di gioco. Fa bene a lui e a noi.
Nonostante le tante cose positive, tra i problemi ancora presenti spicca l’approccio mentale alle partite: nel primo quarto Pesaro ha subito 26 punti contro Brindisi, 25 contro Reggio, 30 contro Cremona… Perché la squadra non riesce a imporre il proprio ritmo e gioco sin da subito, subendo invece quello degli avversari?
È difficile dare una spiegazione. È un dato di fatto. Abbiamo una squadra che per caratteristiche può faticare e abbiamo tipologie di quintetti che variano molto. Nel tentativo di avere due unità che siano continue, omogenee e performanti non sempre siamo capaci di approcciare le gare dal punto di vista difensivo nel modo più opportuno. La cosa che conta però è riuscire a esprimere continuità sui 40 minuti. È un aspetto che urge migliorare, però la cosa che più conta è avere la consistenza come squadra di sostenere buoni e cattivi momenti durante la stessa partita. Contro Brindisi siamo arrivati a -13 ma siamo tornati, la stessa cosa a Varese con la Openjobmetis è riuscita a ricucire svantaggi importanti ma gli abbiamo sempre ricacciati indietro. Il basket di oggi non può essere analizzato solo con i numeri: ci sono emozioni, tensioni, momenti dentro la stessa partita. Break e controbreak sono all’ordine del giorno, tiro da tre e rimbalzi sono decisivi, ci sono tanti dettagli che hanno valenza sull’economia di una gara intera.
Un campionato folle, dove con 18 punti Pesaro è a 4 punti sia dai playoff e che dalla retrocessione. Dunque, anche se l’obiettivo primario resta la salvezza, la matematica permette di sognare più in grande. Quanto è importante mantenere una mentalità solida in vista del rush finale dove Pesaro si ritroverà ad affrontare, tra le varie, Fortitudo, Trento e l’ultima Napoli?
Questa è la fisionomia attuale della classifica: ogni settimana a fronte di una singola vittoria o sconfitta la tua posizione cambia radicalmente. Si passa dall’euforia dei playoff alla delusione per la retrocessione in soli 7 giorni. Noi dobbiamo riuscire ad alienarci a questo isterismo. Serve molta fermezza, consistenza e rimanere concentrati sul gioco. Servono settimane di lavoro di qualità anche perché ancora siamo alla ricerca di un’identità che ci permetta di guardare alle prossime 7 partite con la consapevolezza di potercele giocare. Ci sono gare sulla carta proibitive e ci sono partite delicatissime come quella con la Fortitudo dove ci portiamo anche in dote il pesante fardello della pesantissima sconfitta dell’andata. Giocheremo a Trento e Napoli che sono squadre risucchiate in fondo alla classifica, ma che sono state capaci di batterci a domicilio. Questo è un campionato durissimo dove io devo proteggere la squadra da eccessi di euforia o tristezza. Dobbiamo tirare su il bavero e andare avanti cercando di alzare il livello.
Manca più di un mese alla fine di una stagione ancora tutta da scrivere. C’è però una certezza: il pubblico di Pesaro già chiede a gran voce una sua riconferma per continuare questo progetto. Bisogna pensare sicuramente al presente, ma eventualmente uno sguardo al futuro?
Sono concentrato sull’oggi. Né per me né per il club è una priorità, infatti non abbiamo mai affrontato la quesitone. Sappiamo sin da quando ho accettato l’incarico che serviva da parte mia il massimo sforzo per aiutare questa nave a raggiungere lidi più tranquilli. Ovvero una salvezza che possa permette a Pesaro di organizzare il suo futuro in A1.
Chiudendo, al di fuori della pallacanestro. A Pesaro sicuramente le hanno parlato della pizza rossini (margherita con uovo sodo e maionese, ndr), dedicata al noto compositore. Se l’ha assaggiata, in maniera spassionata, che ne pensa?
Sì sì, l’ho mangiata e la conoscevo anche prima visto che c’ero già stato a Pesaro. Confesso che, nella sua unicità, non mi ha conquistato. Però a testimonianza del rispetto che ho per le tradizioni e della considerazione che ho dell’ambiente confesso che mi è capitato di ordinarla in pizzeria. Anche perché c’è differenza con quelle piccoline che prendi dal fornaio che sono simili, diciamo, ai classici tramezzini che trovi ovunque, il problema è quando ordini la rossini al piatto. Approcciare una pizza di quelle dimensioni e con quegli ingredienti non è semplice. L’ho fatto quasi come atto d’amore verso la città. Ma – ride, ndr – non accadrà mai che in una città diversa da Pesaro io possa ordinare una pizza del genere.
Si ringraziano per la disponibilità Luca Banchi e la Carpegna Prosciutto Pesaro.
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