La vita di Gilbert Jay Arenas non incomincia nel migliore dei modi, la madre, molto probabilmente una ragazza di 27 anni invischiata in problemi alcolici e di droga, lo abbandona pochi istanti dopo in un malfamato quartiere di Tampa, in Florida, all’incrocio n°9. Il padre, che risiedeva nelle case popolari proprio in quell’incrocio, da tempo desidera rifarsi una vita e decide di trasferirsi insieme al bambino in California.
Cresciuto con il mito dello Showtime losangelino, frequenta assiduamente i playground californiani e sogna un giorno di poter raggiungere il livello dei suoi idoli. Si iscrive alla Grant High School e sin dalle prime partite divide l’opinione pubblica, nonostante continui a segnare canestri su canestri, non riesce mai a convincere gli scout perché ha le caratteristiche di un tweener: ha le mani da shooting guard ma non il fisico, ha le accelerazioni e il ball handling di una point guard ma non la visione di gioco.
Le opinioni e i commenti delle persone a lui più care (padre e amici su tutti) sono tutt’altro che incoraggianti: sin da subito gli ricordano che ha 0 chance di sfondare nel mondo dei pro e che avrebbe dovuto cercarsi un lavoro anziché perder tempo sul parquet. A rafforzare in parte questa tesi è proprio la Grant, che non gode di buona visibilità e viene spesso ignorata dalle Università di Division I, da ciò ne consegue che le probabilità di venir reclutato sono ridotte ai minimi termini.
La svolta avviene nell’estate del 1999 dove viene casualmente visionato dall’head coach dei Wildcats (niente illusioni, non si tratta di Kentucky ma di Arizona), Lute Olson, che decide di dagli una possibilità nella sua squadra. Veste la casacca #0 (l’orgoglio e l’autostima non mancano di certo, specialmente dopo le parole ingiuriose rivolte dal suo coach in allenamento) ed impiega pochi istanti a rubare la scena a tutti e diventare il secondo giocatore della storia a segnare più di 500 punti nel suo anno da freshman, ritagliandosi uno spazio sempre maggiore nella squadra e riuscendo a trascinare gli Wildcats alle Final Four NCAA(grazie all’aiuto decisivo di Richard Jefferson) nell’anno successivo, perdendo sul più bello nella finalissima contro Duke, trascinata dai futuri NBA player Carlos Boozer, Shane Battier e Chris Duhon.
Decide di rendersi eleggibile per il Draft del 2001, sapendo benissimo di non avere chance per le prime 15 scelte, ma confidando comunque di poter stringere la mano a Stern per avere un contratto garantito (caratteristica dei primi 28 selezionati). La doccia gelida arriva alla scelta #28 dei San Antonio Spurs, che decidono di chiamare il franco-belga Tony Parker (col senno di poi Steal of the Draft a mani basse insieme a lui), terminando di fatto il primo giro. Arenas viene chiamato con la numero 30, e questo non fa altro che aumentare il suo incredibile desiderio di rivalsa, nei confronti del mondo intero, anche di suo padre, che continuava a spendere opinioni contrastanti con l’intento di allontanarlo dal mondo della palla a spicchi.
Passa le prime 40 partite nel mondo dei pro seduto in panchina e tutti i giudizi negativi che lo accompagnavo dall’infanzia continuano ad affiorargli la mente partita dopo partita. Arriva anche il suo momento, con coach Cowens che finalmente lo schiera in campo con regolarità, dandogli un buon minutaggio in grado di garantirgli 11 punti a sera. Passa tutta l’estate in sala pesi e sui campi d’allenamento, per adattarsi al nuovo ruolo che gli è stato imposto con decisione: point guard, dato che la posizione di shooting guard era già ricoperta da Jason Richardson (che vinse il ballottaggio con Larry Hughes, suo futuro compagno di squadra). I risultati non tardano ad arrivare, il 2002-2003 infatti lo vede ritagliarsi una posizione privilegiata nella lega, facendosi un nome, con la conquista dell’MVP del Rookie Challenge ed il premio come MIOTY, grazie a 18 punti, 6 assist e 5 rimbalzi.
Alla fine del suo secondo anno, sentendosi per la prima volta importante e decisivo decide di sondare il mercato dei free agent (gli Warriors, essendo sopra al cap ed avendolo scelto al secondo giro non potevano pareggiare le offerte che sarebbero arrivate a lui), e vedrà in seguito una normativa a suo nome: la Gilbert Arenas Rule, che permetterà alle franchigie di pareggiare le offerte anche per i prodotti del secondo giro.
Diverse squadre sono sulle sue tracce, ma due in particolare offrono un contratto soddisfacente per l’Agent 0: Clippers e Wizards. Quale scegliere? Da perfetto uomo di strada decide di fare “flip or coin” ed esce la squadra della capitale. Washington è una squadra in piena ricostruzione, ritardata a causa del biennio Jordan appena concluso e da mosse scellerate sul mercato (su tutte Kwamone Brown alla #1 del Draft di Gilbert). La prima stagione a livello numerico procede sulla falsariga di quello precedente ma gli infortuni lo limitano parecchio, costringendolo di fatto a saltare 27 partite.
La sua esplosione definitiva avviene nel 2004-05’, dove ne mette 25 ad allacciata di scarpe, partecipando all’ASG e trascinando la squadra assieme ai fidi compagni Larry Hughes ed Antawn Jamison laddove Sua Maestà aveva toppato: NBA Playoffs. Vince la prima serie PO della franchigia (partendo 0-2 con il fattore campo a sfavore) contro i Chicago Bulls dopo ben 23 anni (rimandi con Jordan più o meno velati eh…) ma deve arrendersi di fronte all’uragano Heat, trascinati dal giovane Dwyane Wade e dal 3 volte campione NBA Shaquille O’Neal, appena trasferitosi da LA, sponda Lakers.
Il 2005-2006’ lo vede ancora protagonista a livello realizzativo (4° scorer assoluto con 29,4 punti dopo Bryant, Iverson e James), che gli permette di partecipare all’ASG (solamente come sostituto di Jermaine O’Neal) e di riportare Washington ai PO (da segnalare la partenza di Hughes verso Cleveland compensata dall’arrivo di Caron Butler dall’annata disastrosa in gialloviola), dove cade per mano dei Cavs di LeBron James, in una serie tiratissima conclusasi solo alla sesta partita. A fine stagione l’Agent 0 comunica alla dirigenza di essere disposto a ridursi l’ingaggio per liberare spazio necessario per firmare altri giocatori di livello, l’obiettivo è uno solo: rendere Washington una contender.
L’annata successiva è costellata da diversi alti e bassi, torna a casa sua allo Staples e schiaffeggia un 60ello in faccia a Kobe (con cui aveva avuto un diverbio in precedenza e che porterà il nativo di Tampa ad assumere come secondo nickname Hibachi, grill giapponese in grado di infuocarsi come i suoi tiri) registrando il record di 16 punti nell’OT, nemmeno una settimana dopo piazza un 50ello a Mike D’Antoni (reo di non averlo selezionato nel Team USA per i Mondiali del 2006) e nel mese di febbraio si assicura il posto all’All Star Game partendo titolare grazie al consenso dei tifosi. Purtroppo sul più bello il fato gli è avverso, Gerald Wallace rovina su di lui e sul suo ginocchio mandando in frantumi il collaterale, calando il sipario sulla sua stagione e su quella degli Wizards, che ai PO, orfani anche di Butler, verranno spazzati via ancora dai Cavaliers, futuri finalisti NBA.
E’ l’inizio della fine, l’inizio di un lungo calvario che lo tormenterà sempre di più, scende in campo solamente 15 volte nei successivi due anni (nel 2008 esce malconcio dalla sfida contro i Cavs, in grado nuovamente di eliminare Washington 4-2) alternando prestazioni del vecchio Arenas a quelle di un normale comprimario.L’apoteosi si registra nel dicembre del 2009, quando diventa protagonista di un pericoloso negoziato con Javaris Crittenton circa un debito di gioco. Hibachi punta una delle sue quattro pistole dritta in fronte alla viso del compagno e nello spogliatoio si vivono attimi di panico assoluto. Arenas non viene immediatamente sospeso e scende in campo regolarmente a Philadelphia, dove durante la presentazione mima il gesto del pistolero ai suoi compagni di squadra. Gilbert perde tutto, inizialmente sospeso a tempo determinato, viene radiato successivamente fino al termine della stagione 2009-2010, inutile ribadire che il contratto con Adidas è saltato all’istante.
Riesce ad evitare la prigione (la condanna era di 2 anni con condizionale) prestando aiuto ai servizi sociali e alle comunità in gravi difficoltà. A marzo 2010 afferma di voler cambiare numero di maglia per ripartire da 0 o meglio, inizialmente con il 6, sino alla scelta definitiva: 9,l’incrocio a Tampa in cui la madre lo abbandonò poche ore dopo la nascita. Il rientro sembra un nuovo inizio per il figlio di Gilbert Sr., e nelle prime 24 gare stagionali si conferma miglior realizzatore della franchigia. Tuttavia, Washington, preoccupata per una sua eventuale ricaduta e desiderosa di far crescere la loro prima scelta assoluta al Draft 2010 John Wall, decide di tradarlo ai Magic in cambio dell’ala piccola Rashard Lewis.
Nonostante il suo nuovo numero di maglia, l’1, il suo ruolo in Florida è notevolmente ridimensionato (parte dalla panchina come cambio di Jameer Nelson) e le statistiche non fanno altro che ribadirlo (8 punti e 3 assist, con sole due presenze come titolare). Disputa i PO ma viene eliminato dai Boston Celtics in gara 6. Il 9 dicembre 2011 la società decide di liberarsi di lui grazie all’Amnesty Clause.
Dopo tre mesi si accasa ai Memphis Grizzlies, scegliendo la casacca #10 e sapendo benissimo di non poter ambire ad un posto da titolare data la presenza del giovane Mike Conley nello spot di point guard. Con un contratto fino al termine della stagione, a PO conclusi (Memphis esce subito al primo turno perdendo gara 7 in casa contro i Clippers, proprio quei Clippers che la sorte evitò ad Hibachi anni prima con la monetina) lascia l’NBA, passando dal retro, senza dire nemmeno una parola.
Nel novembre 2012 diventa un nuovo giocatore degli Shangai Sharks, squadra militante nel massimo campionato cinese, la CBA. In Cina Gilbert torna ad essere l’Agent 0 di un tempo, scegliendo il numero che lo ha contraddistinto durante la sua carriera, ma viene liberato dopo un solo anno di permanenza.
Carriera culminata forse nel peggiore dei modi, a 32 anni Hibachi non ha ancora ufficializzato il suo ritiro ma difficilmente rivedrà un parquet NBA con le sneakers ai piedi. Il suo desiderio di rivalsa, di dimostrare a tutti di essere in grado di far la differenza anche ai piani alti, lo ha accompagnato durante il corso della sua vita da cestista. Nessun amico, nessuno scout, nessun allenatore, nessun giocatore, nemmeno suo padre è mai riuscito a fermarlo, la sua sorte l’han decisa proprio quel desiderio di dimostrare che si sbagliavano e i suoi ripetuti infortuni al ginocchio, sempre più danneggiato nel corso degli anni. Le ultime sue notizie ci portano alle Bahamas, dove attualmente risiede l’All Star NBA, intento ad umiliare gli avversari a poker, nella variante texana Texas Hold’em. Immaginiamo sia tremendamente difficilmente batterlo anche in questo campo, dato il suo tremendo orgoglio e la smisurata autostima. Probabilmente vi distoglierà dall’obbiettivo facendovi perdere la mano, bluffando al massimo e celando magistralmente le sue carte sfavorevoli, dimostrando ancora una volta il seguente slogan.
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