Quindici minuti e mezzo di discorso. Tutto d’un fiato, senza quasi mai alzare gli occhi dai fogli se non per scusarsi dell’eccessiva lunghezza, e nominare le persone a lui più care: i genitori in cielo, il figlio Andrea, il fratello Renzo e la sua “lovely” Caterina.
“Il mio intervento lo preparò Dan Peterson. Pensavo avesse scritto due righe e invece erano una ventina di cartelle. Dopo un po’ che parlavo quelli della Tv mi fecero segno di tagliare…”.
Emozione si, ma non poteva non esserci ironia anche in un momento storico come l’ingresso nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, per uno come Dino Meneghin.
Per capire la portata di una simile decisione, quella di ammettere nel tempio dei grandi di sempre dell’NBA un atleta che nella Lega più famosa del mondo non ha mai giocato nemmeno un secondo, forse bastano le parole di McAdoo. Fu lui a pronunciare il discorso di introduzione a Dino, quel 5 marzo 2003. Dopo aver elencato le innumerevoli imprese e qualità del suo amico fin dai tempi dell’Olimpia, Bob disse esattamente così: “In carriera ho avuto compagni di squadra come Nate Archibald, Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, James Worthy, Moses Malone, Charles Barkley e Julius Erving; Dino Meneghin certamente appartiene a questa categoria di giocatori”.
Detto questo, non dovrebbe occorrere altro per inquadrare cosa sia stato e cosa sia ancora oggi la figura di Meneghin per il basket italiano. Per la lista dei suoi trofei può bastare google (a patto di avere il tempo per leggerli tutti…) ma per comprenderne la grandezza oltre i nostri confini, forse può aiutare un episodio che non tutti ricordano con precisione.
Al Draft del 1970 Marty Blake, allora general manager per gli Atlanta Hawks, sceglie Dino, che diventa appena 20enne il primo giocatore straniero ad essere mai stato draftato. Per varie vicissitudini Meneghin non giocò mai in NBA ma il suo risarcimento ideale lo ebbe proprio a Springfield nel 2003, incontrando di nuovo Blake: “Senza dubbio Dino sarebbe potuto essere tra i più grandi giocatori della Lega”, ebbe a dire.
Ciò che sarebbe potuto essere possiamo solo immaginarlo. Ciò che è stato lo sappiamo invece con certezza: mito e leggenda della nostra pallacanestro, totem riconosciuto sotto la Muraglia cinese o nel Santuario di Lourdes. Ma non chiamatelo ‘monumento’ perché come dice lui, “sui monumenti fanno la cacca i piccioni”!
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