I Pistons non sarebbero nessuno senza Joe Dumars

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Torna presente il nostro appuntamento con “Memories of Champions”, le storie, gli aneddoti e i racconti dei giocatori che hanno lasciato il segno nella NBA: anche oggi andremo a parliare di uno dei giocatori più determinanti degli anni ’80 e 90′ dello scorso secolo, simbolo di una franchigia storica come i Detroit Pistons.

JD

Joe Dumars III nasce il 24 Maggio del 1963 a Shreveport, in Louisiana ed è il più piccolo di cinque. Lo sport di famiglia è il football e Joe si ispira ai suoi fratelli, giocando nella linea difensiva della squadra della Natchitoches Central High School. Il primo approccio con il basket arriva come la “classica favola all’americana”, grazie a Big Joe, così era soprannominata il papà, che costruisce a mano un canestro da appendere nel giardino di casa per suo figlio.

Nei quattro anni trascorsi al McNeese State University mette in mostra tutte le sue qualità di realizzatore, facendo registrare il suo massimo nell’anno da senior, con 25.8 punti a partita: termina il college come 11esimo realizzatore della storia nella NCAA.

Nel draft del 1985 compaiono i nomi di Patrick Ewing, Chris Mullin e Karl Malone, ma un giocatore dal talento di Joe Dumars non si può far scappare e con la scelta numero 18 del primo turno viene selezionato dai Detroit Pistons, la franchigia di cui vestirà la maglia per tutta la sua carriera da giocatore e non. I primi due anni nel Michigan sono difficili: la squadra è in mano a Isiah Thomas e superare le gerarchie agli inizi non è cosa semplice. Dumars viene incluso nel primo quintetto dei Rookie grazie a 9.4 punti e 4.8 assist di media, ma il suo inserimento all’interno delle rotazioni è graduale.

Dumars drives to the basketFinalmente al suo terzo anno, dopo aver perso le Finali di Conference contro i Boston Celtics, finalmente trova il proprio posto nei Pistons: gioca 33 minuti di media a partita (senza scenderci sotto per le prossime 8 stagioni) e colleziona 14.2 punti, 4.7 assist e 1.1 rubate in 82 partite, tutte da titolare. E’ ormai chiaro il ruolo di Dumars all’interno della squadra: in questi primi anni non è ancora riuscito a trovare una certa confidenza con il ferro, forse per la difficoltà del salto dal mondo del college alla nba o per le personalità ingombranti del team, ma adesso è titolare inamovibile in coppia con Thomas, andando a formare il migliore backcourt di tutta la Lega. Il marchio di fabbrica è un primo passo incredibile, che gli permetteva di concludere la maggior parte delle sue partenze al ferro: inoltre aveva una capacità fuori dal comune di cambiare direzione una volta staccati i piedi da terra, indice di un controllo assolutamente perfetto del proprio corpo.

Arriva infine la stagione 1988-1989: Joe viene incluso per la prima volta nel primo quintetto difensivo, i Pistons chiudono con il miglior record della nba (63-19) e dopo aver eliminato 4-2 i Chicago Bulls di Jordan, fanno ritorno per il secondo anno consecutivo in finale, sempre contro quei Los Angeles Lakers, usciti vittoriosi dopo gara 7. Quest’anno non c’è storia, complici anche gli infortuni a Byron Scott e Magic Johnson: il risultato è un secco 4-0 per Detroit. Dumars viene eletto MVP delle Finals dopo 4 partite chiuse a 27.3 punti e 6 assist di media, risultando decisivo soprattutto in gara 4: con LA sempre avanti, nel quarto quarto Dumars realizza 21 punti su 28 totali, recuperando anche un pallone nei secondi finali con una stoppata. Questo è sicuramente dei due il titolo che ha mostrato al mondo intero le migliori qualità del numero 4 di Detroit: quasi un ritorno al passato, dove Dumars ha rivestito il ruolo di leader in campo, palla in mano, guidando i suoi ad annientare la fragile difesa dei Lakers.

L’anno successivo i Pistons di coach Chuck Daly si ripetono: dopo la prima apparizione all’All Star Game e l’inclusione per la seconda volta nel primo quintetto difensivo, arriva ancora miglior record della lega (59-23), e dopo aver umiliato Pacers (3-0) e Knicks (4-1), vincono anche la serie contro i Bulls. In finale anche quest’anno non c’è storia, perché i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler devono arrendersi in 5 partite contro i travolgenti Bad Boys, che vincono il secondo titolo consecutivo.

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Parliamo di una delle squadre che ha segnato la storia della nba a cavallo tra gli anni ’80 e ’90: brutti, aggressivi e spesso fuori controllo. Per questo “Bad”. Una delle storie più hipster e allo stesso modo emozionanti dopo il dominio condiviso negli anni ’80 tra Boston Celtics e Los Angeles Lakers. Per questo se ne parla ancora.

Joe era il perfetto complemento di questo gruppo: un ragazzotto nero del sud, duro come la pietra, con mani veloci e una grandissima etica del lavoro. Non centrava di fatto niente con i suoi compagni di squadra. Tutto questo però era il contorno di un talento sconfinato. Un attaccante a tutto tondo, a partire dal jumper, uno dei più efficaci in quegli anni, altro marchio di fabbrica in casa Dumars, che ha potuto allenare proprio grazie a quel canestro fatto costruire dal papà, e per finire con il tiro da tre punti, che nonostante qualche difficoltà iniziale è diventato uno dei punti forti con il passare degli anni (38,2% in carriera, con 7 stagioni sopra il 40%). Non possiamo trascurare la sua visione di gioco, che gli ha permesso di giocare anche nel ruolo di playmaker negli ultimi anni di carriera, dopo il ritiro di Thomas: un giocatore intelligente, con un’ottima consapevolezza della posizione dei suoi compagni, capace di trovare in transizione l’uomo libero o il compagno meglio posizionato.

L’anno successivo i Pistons ci riprovano e arrivano per il quarto anno di fila alle Finali di Conference, ma siamo nel 1991 e questo a livello storico significa che Michael Jordan sta per vincere (finalmente) il suo primo anello e che per i prossimi 2 anni nella Eastern Conference non ci sono più chance. Dumars assume sempre più la posizione di leader all’interno della squadra, viaggiando a 20.4 punti di media (prima volta in carriera sopra i 20 a partita), a cui aggiunge i soliti 5 assist. A livello individuale la stagione 1992/1993 è la più prolifica: arriva la quarta convocazione consecutiva per l’All Star Game, l’inclusione nel miglior quintetto difensivo e nel secondo miglior quintetto nba, il tutto grazie a 23.5 punti e 4 assist in 77 partite.

La stagione 1993/1994 è letteralmente un flop per Detroit, che al termine della regular season chiude con appena 20 vittorie nonostante un ottimo Dumars (20.8 punti): non proprio un bel ricordo per Isiah Thomas, che si ritira. La franchigia opta per la ricostruzione e dei Bad Boys è rimasto solo Joe, che comunque sulla carta d’identità ha superato i 30 anni: con gli innesti di Grant Hill dal Draft (1994) e Jerry Stackhouse dopo una stagione perdente i Pistons riescono a raddrizzare il tiro e si qualificano ai playoff altre tre volte, venendo però eliminati sempre al primo turno.

Come ho già accennato prima, Dumars è stato uno dei difensori più forti della lega in quel periodo e la squadra negli anni era tra le migliori nella propria metà di campo: ha potuto fare affidamento anche su Dennis Rodman oltre al nostro protagonista, che sugli esterni veniva matematicamente accoppiato con i giocatori più pericolosi. Aveva due mani velocissime, l’incubo di tutti gli avversari che sapevano di poter perdere la palla in un 1vs1: inoltre sapeva leggere molto bene gli schemi avversari e grazie alla sua reattività andava spesso ad intercettare i passaggi. Essendo un giocatore molto fisico, sapeva come limitare l’avversario anche nel gioco lontano dalla palla e secondo Jordan fu uno di quelli che lo mise più in difficoltà nel corso della sua carriera, complice anche l’adattamento da parte dei Pistons che diedero vita alle famose “Jordan rules”.

dumarsJoe annuncia il rito all’età di 36 dopo l’eliminazione contro gli Atlanta Hawks al termine della stagione 1998/1999, dove è stato costretto a saltare più di 40 partite per infortunio e ha chiuso a 11.3 punti e 3.5 in 29 minuti di utilizzo: con i Pistons però non finisce qui, perché nel 2000 diventa il general manager della franchigia del Michigan e, nonostante alcune scelte discutibili (si, stiamo parlando di te Milicic), è riuscito in pochissimo tempo a costruire una squadra che per anni ha lottato ai vertici della classifica e ha riportato alla città di Detroit il Larry O’Brien Trophy nel 2004. Nella sua bacheca vanta anche il premio di “Executive of the Year”.

Dumars e Detroit: una cosa sola. Nel suo discorso d’ingresso alla Hall of Fame (2006) si è fatto accompagnare dal suo partner in crime, Isiah Thomas, e ha voluto ringraziare tutte le persone che in quella franchigia lo hanno sostenuto, soprattutto nei primi anni di carriera che a detta sua sono stati: “I peggiori della mia vita”.

Dal 2014 non siede più dietro la scrivania e la sua maglia numero 4 è appesa al Palace of Auburn Hills per ricordare a tutti che, se Detroit nella sua storia può vantare 3 titoli NBA, il merito è anche suo.

Giovanni Aiello

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