In memory of Dean Smith

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Dean Smith, giocatore ai tempi di Kansas.
Dean Smith, giocatore ai tempi di Kansas.

“Un mentore, un maestro, un secondo padre” così Michael Jordan ha definito coach Dean Smith e in questi giorni che seguono la scomparsa dello storico coach di North Carolina tante sono le parole di affetto ed apprezzamento rivolte all’allenatore soprattutto da parte dei suoi ex-giocatori, da James Worthy a Sam Perkins, passando per Bob McAdoo e Kenny Smith. Ma perché la figura di quest’uomo è rimasta così impressa nelle menti di coloro che hanno avuto la fortuna di giocare per lui?.
Innanzitutto Dean Smith, nato in un paesino nella campagna del Kansas, è un ottimo giocatore di college basket e vince il titolo NCAA 1952 con i Kansas Jayhawks; il suo allenatore è una personalità leggendaria nello sport collegiale americano: Phog Allen, coach di basket, football e baseball, che in gioventù (siamo nel primo decennio del Novecento) era stato allenato da una figura che aveva una certa influenza nel mondo della pallacanestro: James Naismith.
Dean non ha però abbastanza talento per giocare tra i professionisti e decide quindi di arruolarsi nell’U.S Air Force, ma la vita del militare non fa per lui e quindi comincia a fare l’assistente delle squadre sportive della forza aerea statunitense. Nel 1961 arriva la chiamata che gli cambierà per sempre la vita: University of North Carolina e la proposta di allenare la squadra di basket dei Tar Heels, da quel giorno il bianco e l’azzurro rimarranno colori indelebili nella vita di Dean. Nei 36 anni seduto sulla panchina fa soprattutto una cosa: costruire una famiglia, la “Big Carolina Family”, quella grande famiglia composta da studenti e tifosi che vanno al palazzetto a guardare le partite e indossano le magliette della squadra e che si riconoscono nei colori bianco-azzurri, nella squadra e nel suo stile di gioco; dentro questa grande famiglia riesce a costruirne un’altra, più piccola, ma ancora più importante, formata dai giocatori e dal suo staff, con i primi che vedono in lui un modello, un esempio di comportamento, per loro coach Dean diventa come un padre, gli chiedono tutto, si fanno accompagnare da lui in tanti aspetti della vita, alcuni fin sull’altare, con coach Smith a fare da testimone di nozze. Ciò che cerca di insegnare ai suoi giocatori è la semplicità, spesso l’essenzialità ed il suo “attacco a 4 angoli” ne è la rappresentazione perfetta, magari poco spettacolare, ma terribilmente concreto ed efficace.
Nei 36 anni sulla panchina dei Tar Heels arrivano 879 vittorie, 13 tornei dell’ACC, 11 Final Four e due titoli nazionali e a questi due titoli sono legati due dei tre momenti che simboleggiano l’intera carriera di coach Smith: il jumper di Michael Jordan contro Georgetown nel 1982 e Chris Webber che chiede un time-out che non può chiamare, l’anno è il 1993; l’altro grande momento arriva su una panchina diversa da quella dei Tar Heels, è la panchina di team USA e siamo alle Olimpiadi di Montreal 1976.

Dean con un giovanissimo Michael Jordan.
Dean con un giovanissimo Michael Jordan.

Nel 1982 Dean è alla ventunesima stagione sulla panchina di North Carolina ma i Tar Heels non hanno mai vinto il titolo e in questo periodo hanno perso tre finali (quella dell’anno precedente, contro l’Indiana di Bobby Knight è sicuramente stata dolorosissima); coach Smith sente però che quell’anno può davvero essere diverso, a fianco di James Worthy ha infatto reclutato un giovane freshman nato a Brooklyn e cresciuto a Wilmington, nel North Carolina: Michael Jeffrey Jordan. Quella che ha tra le mani è sicuramente la squadra più forte che abbia mai allenato, nel roster ci sono anche Sam Perkins e Cecil Exum (padre del Dante che oggi gioca a Utah), ma indubbiamente è il giovane freshman, Jordan, il n.23, che attira le attenzioni di tutti, partendo sin da subito titolare. Quella dei Tar Heels è una cavalcata, vincono l’ACC e nel torneo battono James Madison, Alabama e Villanova; le Final Four si disputano al Lousiana Superdome di New Orleans e l’avversario in semifinale è la Houston di un altro freshman che promette bene: Hakeem Olajuwon, ma i Tar Heels non si fanno intimorire, vincono 68-63 e volano in finale. E’ il 29 Marzo 1982 e l’ultimo avversario che Dean Smith e i suoi ragazzi devono battere si chiama Georgetown, tra le cui fila gioca Pat Ewing, un giocatore di una fisicità disarmante a livello di college, oltre a Eric “Sleepy” Floyd, appena nominato all-american (un giocatore che quando passerà tra i ‘pro mostrerà un decimo del suo potenziale talento). La partita è all’insegna dell’equilibrio e per tutto l’arco del match nessuna delle due squadre riuscirà ad avere più di un possesso di vantaggio, nonostante la presenza di Ewing Worhty domina (28 punti) e si entra negli ultimi 30 secondi con G’Town avanti di uno, North Carolina ha la palla in mano, il play Jimmy Black ribalta il lato verso Jordan che ha spazio per tirare, a questo punto coach Dean Smith urla delle parole che entreranno nella storia “Knock it in Michael, knock it in” e Michael, ovviamente, segna:63-62. Sul cronometro restano però 13 secondi ed Eric Floyd arriva dall’altra parte del campo ma come spesso ha fatto, nel basket e nella vita, prende una scelta inspiegabile: passa la palla a Worthy, che non crede ai suoi occhi e vola nell’altra metacampo, partita finita. Coach Smith può finalmente festeggiare il suo primo titolo e lo fa soprattutto grazie ad un ragazzo di 19 anni che lui ha scoperto e in cui ha sempre avuto fiducia.

Il titolo del 1993
Il titolo del 1993

C’è un altro momento storico nella carriera di Dean Smith: la stagione è quella 1992-93 e la squadra di North Carolina è l’esatto opposto di quella di 11 anni prima, di talento c’è ne poco, ma il coach è riuscito a costruire un gruppo affiatatissimo, giocano tutti e tutti portano il loro contributo, consapevoli che difficilmente dopo l’esperienza dell’università potranno giocare in palcoscenici importanti. Sorprendendo un po tutti la squadra fa strada e anche grazie ad un tabellone non troppo difficile (East Carolina, Rhode Island, Arkansas e Cincinnati) Dean Smith arriva alle Final Four, ancora a New Orleans, ancora al Louisiana Superdome, come 11 anni prima, in semifinale l’avversaria è la sua alma mater Kansas, allenata da Roy Williams (l’uomo che sarà il suo successore sulla panchina dei Tar Heels) e UNC vince 78-68. La finale appare però proibitiva, secondo i media americani Dean Smith ed i suoi ragazzi sono la vittima sacrificale di Michigan, la Michigan dei Fab Five, che non dovrebbero avere difficoltà contro una squadra ben organizzata ma con poco talento, che gioca un basket che alcuni, nei giorni che precedono il match, definiscono noioso se confrontato al gioco fatto di schiacciate ed alley-oop dei cinque di Michigan. Il 5 Aprile i Fab Five si rendono conto che a volte il talento non basta e soffrono contro la difesa asfissiante messa in atto da coach Smith e faticano a trovare contromisure al “noioso” attacco ai 4 angoli di North Carolina e così, quando mancano 20 secondi, North Carolina è avanti di uno e
Pat Sullivan è in lunetta: mette il primo per il 73-71, ma sbaglia il secondo e Chris Webber prende il rimbalzo, il giocatore di Michigan commette un’infrazione di passi colossale ma gli arbitri non fischiano ed arrivato dall’altra parte tutti sono convinti che sarà a lui a prendersi il tiro della vittoria, ma invece va a cacciarsi nell’angolo e per paura di perdere palla chiama time-out, tutti si guardano negli occhi, come per chiedersi se l’abbia fatto davvero, perché i time-out di Michigan sono finiti e puntuale per Webber arriva il fallo tecnico: libero e possesso per UNC che vince una delle più incredibili finali della storia. Dean Smith è nuovamente campione, ancora a New Orleans, ancora una volta il suo sguardo è incredulo e pieno di gioia, se quello dell’82 era stato il titolo di Michael questo è il titolo della squadra, di North Carolina, del lavoro e della fatica e probabilmente questo, più dell’altro, lo sente davvero come suo.

Cutting the net..
Cutting the net..

Uno dei momenti più belli di carriera di coach Smith non è però legato a North Carolina ma agli interi Stati Uniti, in particolare alle Olimpiadi di Montreal del 1976, in cui viene scelto come coach del team a stelle e strisce; tutti hanno ancora negli occhi la partita di basket più discussa della storia, la finale di 4 anni prima a Monaco, contro l’Unione Sovietica, agli occhi degli statunitensi quello era un furto e bisognava assolutamente tornare a vincere una medaglia d’oro olimpica in terra canadese; il Dream Team di Barcellona è ancora lontano, i giocatori NBA non partecipano ai Giochi Olimpici ed i giocatori scelti da Dean sono tutti universitari. Il talento c’è ma di sicuro non è debordante: ci sono Scott May e Quinn Buckner, freschi di titolo NCAA con Indiana, c’è il centro Adrian Dantley e c’è Phil Ford, suo play anche a North Carolina, tanti ottimi giocatori ma nessun vero fenomeno e i dubbi dei media americani, che per la prima volta nella storia non danno l’oro come scontato paiono fondati. Il gironcino (in cui c’è anche l’Italia) è passato senza troppi problemi e grazie alla formula d’allora con la vittoria del girone si è già in semifinale: l’avversario degli States si chiama Canada, i padroni di casa, che obiettivamente contro la squadra di Dean Smith possono ben poco: 95-77 e USA in finale. L’altra semifinale è tutto un’altra storia: Unione Sovietica-Yugoslavia, per molti la più bella partita nella storia del torneo olimpico, 89-84 per la Yugo e rivincita di Monaco rimandata. Kicanovic, Dalipagic, Cosic, Delibasic, e qualcuno si chiede “Ma siamo davvero più forti di loro?”, se ci fossero i giocatori NBA ovviamente sarebbe diverso ma la Yugoslavia ha atleti che dominano l’Europa e non si può di certo sottovalutarli. La finale però è un capolavoro di coach Smith che riesce ad imbrigliare Delibasic ed ottiene una prestazione monstre da Adrian Dantley, increbilmente non c’è partita: 95-74 per gli Stati Uniti, ed ora nessuno osa più criticare la scelta di Dean Smith come allenatore, anzi ora è lui l’artefice del successo che, con poco talento a disposizione, è riuscito a costruire tantissimo e a portare agli Stati Uniti l’ottava medaglia d’oro olimpica nel basket.

Michael Jordan e Dean Smith si ritrovano per una partita dei Tar Heels, correva il 2007.
Michael Jordan e Dean Smith si ritrovano per una partita dei Tar Heels, correva il 2007.

Questi sono solo tre momenti della meravigliosa carriera di coach Smith, ce ne sono sicuramente molti altri, come il recrutamento del primo giocatore afro-americano nella storia di North Carolina: Charles Scott, correva il 1967 o come il giorno del suo ritiro, nel Marzo del ’97, quando migliaia di studenti di North Carolina lo pregavano in lacrime di restare. Probabilmente questi momenti fanno capire perfettamente la personalità di coach Smith: un uomo che ha sempre capito cos’era meglio per se e soprattutto per la squadra decidendo in alcune occasioni di restare defilato e lasciar maggior spazio ai giocatori, come fece nel 1982 quando si rese conto di aver tra le mani un talento mostruoso come quello di Jordan, che difficilmente poteva essere “imbrigliato” in un mondo come quello del college; ma Dean era anche la persona che sapeva essere da punto di riferimento per i giocatori, che diventava il vero leader dalla panchina quando magari non c’era un vero leader in campo, come ha fatto nel ’93 o a Montreal e tutto ciò perché, come amava dire “ho sempre messo il bene della squadra davanti a tutto” e forse pochi coach hanno sempre avuto la sua lucidità nel capire in ogni momento cosa fosse il bene per la squadra.
Negli ultimi anni questa lucidità è venuta a mancare e il morbo di Alzheimer ha portato Dean a dimenticarsi pian piano del suo passato ma a Chapel Hill i tifosi di North Carolina, così come nel mondo gli appassionati di basket, di Dean non si dimenticheranno mai.

Redazione BasketUniverso

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