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Malcolm Delaney: “In Europa non contano i numeri, conta solo vincere. Sono a Milano per questo”

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Malcolm Delaney ha coronato il suo sogno sportivo quando ha giocato ad Atlanta nella NBA per due anni, ma in Europa si era abituato bene, si era abituato a vincere fin dall’inizio quand’era a Chalon, e poi a Monaco, e alla fine ha trovato in qualche modo deprimente non poterlo fare anche in America. Gli Hawks nel suo secondo e ultimo anno nella Lega giocavano per il futuro, non per il presente. Avrebbe voluto un’altra chance, ma il suo percorso non ha più coinciso con i tempi della NBA che adesso appartiene al passato. Adesso c’è solo Milano. Ma prima c’è la sua storia

-Com’è stato crescere a Baltimore e diventare un giocatore di basket?

“E’ dura, non ci sono tanti giocatori che ce la fanno, soprattutto se provengono dalla periferia. Ci sono stati buoni giocatori, ma molti restano imprigionati nella vita di strada, non hanno avuto buoni insegnamenti, il supporto della famiglia, gente pronta ad avere un impatto positivo nelle loro vite. Per quanto riguarda me, ho avuto dei buoni modelli, la possibilità di uscire, vedere cose diverse, gente che mi ha insegnato molto più che giocare in strada. Il basket a Baltimore è competitivo, tutti i miei amici hanno giocato, ma di sicuro è difficile emergere”.

-Per voi Carmelo Anthony è un modello.

“Ha l’età di mio fratello, così ho avuto la possibilità di vederlo muovere i primi passi fino a diventare quello che è diventato. E’ stato un esempio positivo per tutti i ragazzi di Baltimore e in termini di età è vicino a noi. Ci sono stati altri giocatori di livelli prima di lui, come Sam Cassell, altrettanto famosi, ma noi ci identificavamo di più in Melo per una questione di età. Ho giocato anche per la sua squadra, il Team Melo, così al liceo chi pensava di poter diventare un atleta professionista, lui era certamente il giocatore che seguiva maggiormente”.

-Dopo Baltimore, ci sono stati quattro anni stellari a Virginia Tech.

“E’ stata un’esperienza positiva, non ci si aspettava nulla da noi, ma ogni anno siamo sempre andati migliorando. Personalmente, sono stati gli anni in cui ho realizzato quanto potevo essere valido come giocatore. In estate ho cominciato ad andare ad Atlanta ad allenarmi con Carmelo. Lì certe cose hanno cominciato a diventare reali, ho visto la vita che volevo condurre, il lavoro che lui svolgeva dentro e fuori del campo. Ho conosciuto anche altri giocatori, come Dontaye Draper che poi è andato al Real Madrid. Questi sono diventati i giocatori che ho cominciato a seguire. Melo era una superstar nella NBA, ma giocatori come Draper o Jamon Gordon, che ha avuto una lunga carriera in EuroLeague, quelli sono i giocatori verso i quali ho cominciato a gravitare perché il loro percorso era il più simile al mio”.

-Ma nei draft non è stato scelto.

“I draft sono importanti, mi sarebbe piaciuto essere scelto, ma in realtà non era fondamentale. Quello che conta è dove la mia carriera finirà. Ci sono giocatori che sono stati scelti, hanno giocato due anni nella NBA e basta. Personalmente, mi trovo in una posizione migliore dell’80 o 90 percento probabilmente dei giocatori scelti quando io non sono stato scelto. Se guardo alla mia storia, ho scelto un percorso differente, ma ho avuto successo nel percorso che ho scelto, ho giocato lo stesso nella NBA. In fondo quello che volevo fare l’ho fatto”.

-In Europa, Malcolm Delaney ha vinto tantissimo.

“Ho ascoltato i consigli di giocatori come Draper. Mi hanno detto che – se volevo essere considerato uno dei migliori giocatori in Europa – dovevo vincere. Qui non importa se segni 20 punti a partita o hai grandi numeri. Se perdi, a nessuno importano i tuoi numeri. Dopo il mio primo anno in Francia, quando abbiamo vinto tre coppe e perso l’Eurochallenge in finale, ho capito cosa intendessero dire. Ero apprezzato per quello che facevo perché vincevamo, non per le mie statistiche. Per le vittorie di squadra. Dopo di allora, ogni anno ho cercato di vincere, ho cercato di dare il massimo individualmente, ma per aiutare la mia squadra ad avere successo”.

-Com’è stata l’esperienza NBA?

“Sapevo, essendo andato nella NBA già maturo, cosa aspettarmi. Ad Atlanta pensavo però che alcune cose fossero diverse soprattutto alla fine, ma fa parte del gioco. Non mi piace cercare scuse, a questo punto della mia carriera non mi interessa. Ho conosciuto delle persone ad Atlanta, ho fatto cose positive, è stata in generale una grande esperienza. Sono stato in grado di essere me stesso o di dimostrare quello che potevo davvero fare? No. Ma ripeto a questo punto non mi interessa”.

-Dopo Atlanta, c’è stata la Cina.

“Ad Atlanta, nel mio secondo anno la squadra non voleva davvero vincere le partite, voleva ringiovanirsi, collezionare scelte migliori nel draft. Ma io ero abituato a vincere, per me era deprimente far parte di una squadra in cui non si aspettavano di vincere e non provavano davvero a vincere. Entrando in quella stagione, ero nella miglior forma di sempre, non mi sono mai sentito meglio, poi mi sono operato alla caviglia e ho perso fiducia dopo due anni mentalmente difficili in cui non ho potuto dimostrare quello che sapevo fare. In Cina sapevo che offensivamente avrei potuto essere me stesso e ho avuto questa opportunità di andare in una società organizzata”

-A Barcellona c’era la possibilità di vincere l’EuroLeague.

“Eravamo in seconda posizione in EuroLeague e primi nella ACB quando si è diffuso il COVID. Avevamo la seria possibilità di vincere l’EuroLeague. Tanto lavoro svolto durante la stagione, tante cose che sono accadute dentro e fuori del campo, e non avere neppure la possibilità di finire la stagione è qualcosa di cui si è parlato molto. Ma onestamente ci sono cose più importanti del basket. La sicurezza, la salute. Se deve accadere accadrà”

-E così è arrivata Milano.

“Voglio provare ad essere me stesso, lo scorso anno sono arrivato a Barcellona tardi e la squadra era già stata messa assieme. Quest’anno è diverso. Parlando con l’allenatore, fin dal primo giorno, mi ha detto che voleva fossi me stesso, voleva costruire la squadra attorno a me, permettendomi di essere me. Ha fiducia in me come vincente, conosce la mia etica dentro e fuori del campo, come leader. Il roster che abbiamo, l’impegno del club, tutto è di alto livello. Questo per ora è di gran lunga il posto più professionale in cui sia mai stato. Alla lunga ci aiuterà ad avere successo”.

-Ci sono tanti vincenti in squadra.

“Voglio giocare per dei vincenti, accanto a loro. In una delle nostre prime conversazioni, Coach Messina mi ha detto che forse sarebbe riuscito ad avere Kyle Hines. Lo dico a memoria, ma probabilmente Kyle è uno dei migliori Americani che abbiano mai giocato in Europe, come vittorie, trofei. Sapendo che ruolo avrebbe avuto, mentalmente mi sono diretto qui. Ho giocato contro di lui tante volte, non l’ho mai davvero battuto, così averlo al mio fianco lo vedo come un fatto importante. Poi c’è il Chacho, Shavon che è appena arrivato dopo aver vinto la ACB. Abbiamo tanti giocatori che hanno vinto e ora sono impegnati a costruire un grande club in Europa. Siamo un gruppo di giocatori vincenti che insieme cercheranno di raggiungere traguardi più grandi. Il più grande di tutti sarebbe l’EuroLeague, ma l’obiettivo principale oggi è vincere la lega italiana. Partiamo da qui e poi vediamo cosa succede”.

-Il suo mantra è “Family Over Everything”.

“E’ molto semplice. Quando avevo 18 anni decisi di avere il tatuaggio Family Over Everything, e da allora tutti sanno quanto la famiglia conti per me. Sono cresciuto a Baltimore e avere tutti e due i miei genitori, una famiglia unita, il mio fratello maggiore è il mio migliore amico, la persona che ammiro di più. La prima volta che l’ho visto mi è rimasto impresso, da allora lo uso dappertutto, su ogni piattaforma, twitter, instagram. Adesso molta gente usa FOE, ma se guardate indietro io lo uso dal 2012, 2013”

Fonte: olimpiamilano.com
Francesco Manelli

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