Mo Harkless ha raccontato di uno spaventoso controllo subito dalla polizia mentre era a Portland

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Qualche mese fa era stato Sterling Brown, giocatore di rotazione dei Milwaukee Bucks, a raccontare della sua spaventosa esperienza con la polizia che tempo fa lo aveva arrestato con metodi molto bruschi, compreso l’uso del taser, nonostante fosse sostanzialmente innocuo. Nelle scorse ore, alla luce di quanto successo a Jacob Blake e del conseguente stop delle attività NBA in segno di protesta da parte dei giocatori, è arrivata anche una testimonianza da Mo Harkless: l’ala dei New York Knicks ha raccontato su Twitter quanto gli è accaduto un anno fa durante i Playoffs, quando ancora giocava a Portland. Queste le parole di Harkless:

Durante il mio periodo a Portland, un giorno ero in macchina con mio fratello minore e mio nipote (che avevano rispettivamente 14 e 13 anni), contentissimo per loro che potessero accompagnarmi per la prima volta ad una partita di Playoffs. Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso l’autostrada, ma prima di arrivarci, letteralmente appena prima di svoltare, sento le sirene dietro di noi. Io rimango calmo, perché so di non aver fatto nulla di sbagliato. Quindi dico ai ragazzi di fare lo stesso, che ci penso io. Accosto, prendo subito la mia patente e il mio libretto, abbasso il volume della radio e il finestrino, perché penso che vedere due ragazzi giovani insieme a me potrebbe dare all’agente il beneficio del dubbio (quando sei come noi le provi tutte per essere il più al sicuro possibile).

“Questa è la sua macchina?”
“Eh?”
“Di chi è questa macchina?!”
“Mia, agente… Perché mi ha fermato?”
“Patente e libretto, subito!”
“Perché mi ha fermato?”
“Adesso!”
“Ecco qui”

Si allontana… Meno di due minuti dopo torna, con un atteggiamento completamente diverso. “Oh, ehi Moe! Scusa se ti ho fatto perdere tempo ma ci sono stati movimenti sospetti nel quartiere, e ti ho visto arrivare un po’ veloce. Buona fortuna per stasera, fateli a pezzi!”.

Ecco perché non possiamo “solo giocare”! Perché anche quando lo facciamo, veniamo guardati male quando siamo fuori dal campo, siamo presi di mira dai poliziotti. Fortunatamente a me è capitato poche volte, ma sento dai miei fratelli e dalle mie sorelle che non sono altrettanti fortunati da mostrare la propria carta d’identità e vedere l’atteggiamento degli agenti cambiare in un istante. Quindi, quando i giocatori boicottano una partita ecco per chi lo stanno facendo, e se non siete dalla nostra parte francamente non vogliamo nemmeno sentirvi. Non è un problema di razza o di colore della pelle, è giusto e sbagliato, è egoismo ed empatia. Ora ne abbiamo avuto abbastanza.

Francesco Manzi

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