NBA Stats: Curry vuole l’anello, ma la storia non è dalla sua parte.

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Il #30 dei Warriors ha guidato la sua squadra al miglior record della NBA, e dopo aver ritirato il premio di MVP ha un solo obbiettivo in mente: il titolo. Ce la farà a sovvertire i pronostici?

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Può il passato essere un buon indicatore di ciò che ci aspetta nel futuro?

In economia esiste una particolare sezione che si occupa dello studio dei grafici azionari al fine di provare a prevedere l’andamento futuro dei titoli in questione. Si chiama “analisi tecnica”, e consiste nello studio dell’andamento del prezzo, che si basa su 3 assunti principali:

1) I prezzi si muovono all’interno di un trend;

2) Il prezzo sconta tutto;

3) La storia si ripete.

Sostanzialmente, quanto accaduto nel passato è destinato a ripetersi nel futuro in virtù di determinati meccanismi di fondo statisticamente ricorrenti. Un concetto, questo, applicabile a gran parte dello scibile umano, sia esso di natura sportiva o meno.

Cosa potrebbe emergere analizzando i numeri nudi e crudi messi assieme in quasi settant’anni di NBA al fine di valutare la situazione attuale?

 

La stagione dei Warriors è stata la più prolifica nella storia della franchigia. La cavalcata trionfale che ha visto Golden State collezionare 67 vittorie, si è sviluppata attorno ad un protagonista quale Steph Curry, seriamente intenzionato a diventare il miglior tiratore della storia del gioco e che in attesa di tale “riconoscimento” si è accontentato di un titolo di MVP.

Una delle tante peculiarità che caratterizzano un giocatore unico nel suo genere, è la capacità di contribuire in maniera sensibile alla produzione offensiva della squadra, pur rimanendo il principale creatore di gioco all’interno del sistema dei Warriors. I 23.8 punti a partita messi insieme in stagione, fanno del figlio di Dell Curry il realizzatore più efficace dell’intero roster, del quale rimane però anche il miglior passatore con quasi 8 assistenze per allacciata di scarpe.

Ma il concetto di playmaker realizzatore, andatosi a sdoganare nel corso degli anni, rimane ancora oggi molto controverso. Nonostante il basket moderno sia risultato di un processo di evoluzione che da molti anni oramai sta portando questo sport ad allontanarsi dai dogmi tradizionali sui quali si è pensato pallacanestro per anni, la figura della point guard realizzatrice è circondata da un gran numero di scettici.

Può un playmaker essere il principale punto di riferimento offensivo della squadra e al contempo orchestrarla nella stessa metà campo? La risposta, nel 2015, sembra più che mai positiva.

Ma il vero interrogativo sul quale i puristi del gioco calcano la mano è un altro: si può costruire una squadra da titolo intorno ad una point guard con queste caratteristiche?

La storia (non ce ne voglia il buon vecchio Curry), racconta di una tendenza che non necessariamente collima con le tesi di chi oggi incoraggia questo tipo di gioco, e che somiglia ad una sorta di condanna per chiunque provi ad andare controcorrente, Warriors inclusi.

L’espressione “trend is your friend” (che possiamo tradurre con “la tendenza è tua amica”), coniata dagli analisti di cui si parlava all’inizio, racchiude in sé un concetto ben preciso e avallato dai più: nel cercare di perseguire grandi risultati, è sempre bene tenersi dalla parte dei numeri, cercando nel possibile di mantenersi a favore di tendenza.

A questo punto sarebbe opportuno chiedersi: la miglior squadra della lega (dati alla mano), in che direzione si sta muovendo?

nba_u_magic11_576Come da titolo, le statistiche non sono dalla loro parte. Negli ultimi 35 anni infatti, solamente 2 playmaker hanno portato la propria squadra sul tetto della NBA segnando più dei loro compagni: Magic Johnson (1985, 1987, Los Angeles Lakers) e  Isiah Thomas (1990, Detroit Pistons). Prima di loro, c’erano riusciti solamente Paul Seymour (1955, Syracuse Nationals), Jerry West (1972, Los Angeles Lakers), Walt Frazier (1973, New York Knicks) e Gus Williams (1979, Seattle Supersonics).

Insomma, un club molto esclusivo che da ben 14 anni non accoglie un nuovo membro, ad apparente conferma di quanto già evidenziato in 68 anni di NBA.

Il messaggio di fondo, più che una critica al singolo in sè e per sè, sembra essere un attacco al sistema di gioco che si sviluppa intorno a questo tipo di giocatore, interprete di un ruolo che agli albori del basket prevedeva tutt’altro tipo di mansioni.

E’ Curry l’uomo giusto per allargare questa ristretta cerchia di eletti?

Una prima risposta potrebbe arrivare già stanotte, in gara 6.

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