La lunghezza della stagione NBA è un tema molto dibattuto negli ultimi anni. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare la salute dei giocatori che sono sottoposti a uno sforzo spesso eccessivo, dall’altra l’impossibilità di giocare meno senza rinunciare a un po’ di ricavi (e di guadagni, da parte degli atleti stessi).
Il tema si è fatto più stringente da quando si è diffusa la pratica del “turnover”, ovvero sempre più allenatori (e sempre più spesso) decidono di tenere a riposo in alcune partite le loro stelle, i giocatori che hanno accumulato più minuti fino a quel punto della stagione.
Una scelta operata da Steve Kerr nella partita fra Golden State e Cleveland, tra l’altro vinta comunque dagli Warriors, pur senza Steph Curry, Klay Thompson, Andrew Wiggins e Draymond Green.
Nella conferenza stampa post partita Kerr ha di fatto chiesto scusa ai tifosi ma è tornato a chiudere a gran voce una stagione più corta, con dieci partite in meno.
Mi dispiace molto per i tifosi che hanno pagato il biglietto aspettandosi di vedere in campo alcuni giocatori, è una parte brutale del nostro mondo. Per questo motivo continuo a sostenere che la regular season dovrebbe essere di 72 partite, togliere 10 match non cambierebbe molto, a 10 gare dalla fine tutti hanno già definito la loro stagione. In questo modo ci sarebbe più riposo per i giocatori e meno situazioni pazzesche come i back-to-back, così gli atleti salterebbero meno partite. Ci sono molti più dati rispetto al passato, è dimostrato che mettere sul parquet giocatori non al meglio nei back-to-back aumenta di molto le probabilità di infortuni. Per questo motivo spesso si usa cautela, bisogna ragionare sul lungo periodo.
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