Gli insegnamenti del Cacco, allenare il buon senso

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Ho iniziato la mia carriera professionistica (formalmente) nella stagione 2007-2008 a Livorno. Venivo da una delle migliori scuole di Basket in Italia, il Don Bosco, società della medesima città. Le stagioni precedenti erano state molto gratificanti: una finale scudetto Under 18 Eccellenza, un quarto posto Under 16 Eccellenza, la chiamata a far parte dello staff della Nazionale Under 18 agli Europei 2006 in Grecia e tante altre soddisfazioni ancora.

Al Don Bosco il peso della tradizione si misura nella quantità infinita di giocatori regalati alla Serie A, in una scuola tecnica che ha portato alla ribalta allenatori di talento infinito, ma anche con una preparazione che non può non riferirsi al modello della società.

Così, se è vero che Banchi, Ramagli, Russo, Da Prato e Diana sono tutti diversi, una certa componente formativa li accomuna. Avere la fortuna di passare in una palestra metaforica dove tutto si impregna di alto livello, oltre a inorgoglirti, aumenta il tasso di quella che Ettore Messina chiama auto-esigenza, che innalza il livello di attenzione personale e nel caso specifico aumentava anche l’esigenza di eccellere per tutti gli altri allenatori che mi stavano intorno.

A partire da questa formazione mi sono trovato nel momento in cui il ciclo finiva ad avere la possibilità di scegliere che nuova realtà abbracciare. Avevo offerte dall’allora B1 o dalla B2 come capo-allenatore e in qualche modo le tre (sob!) squadre Toscane allora in LegaDue (Pistoia, Livorno, Montecatini) manifestavano interesse nei miei confronti. Pur provenendo da una realtà di livello assoluto come il Don Bosco, rispetto al mondo del professionismo pagavo lo scotto di essere cresciuto in un mondo (Viareggio) dove la pallacanestro di Serie A non si era mai vista dopo la mia nascita.

CatturaCredetti che la soluzione migliore fosse accettare uno dei ruoli da assistente, per imparare quello che non avevo neanche mai visto, rapportarmi a professionisti anche di settori diversi (medici, manager) per poi, quando fosse stato il momento, tornare a fare quello che l’indole mi portava a sentire come il ruolo in cui mi sentivo a mio agio: il capo-allenatore. Al contrario di quello che si possa pensare, la necessità di sentire responsabilità addosso non è per nulla un fatto scontato. Grandissimi professionisti hanno scelto di non avere un’esposizione di un certo tipo pur avendone le capacità e le opportunità, perché si sentivano molto più a proprio agio con impegni e responsabilità diverse. Il fattore personale, specie rispetto all’alto livello, è assolutamente determinante.

La chiarezza del pensiero mi fece scegliere Livorno. Sandro Dell’Agnello, che allenava quella stagione, oltre ad essere un’icona del Basket Italiano, era perfetto per me dato che da ex giocatore aveva certamente un taglio diverso rispetto alla mia formazione. La città mi conosceva e aveva apprezzato i risultati degli anni Don Boschini, ma in particolare il mio modo di essere piaceva alla persona che più di tutte fu determinante nella scelta: Gianfranco Benvenuti, il Cacco!

Se qualcuno è troppo giovane per sapere chi fosse, parlo di uno dei più grandi allenatori Italiani, ma non era solo questo. Appassionato vero di pallacanestro era il riassunto della Livornesi, fatta di sorrisi ironici, di sarcasmo ma rispetto al gioco anche di una conoscenza e padronanza pressoché assolute. Quell’anno era il nostro Senior Assistant, veniva in palestra ogni giorno. Guardava quello che facevamo in ufficio, assisteva ai montaggi-video, era presente alla scelta dei giocatori.

Il Cacco nel 1990, ai tempi di Trapani

Qualche volta diceva che non sarebbe mai stato in grado di fare le cose che facevamo in palestra, ma quando poi si trattava di correggere un giocatore o di spiegare la mitica difesa 3-2 match-up, gli occhi si illuminavano e sembrava lo stesso di una foto di anni prima che si può vedere dentro il palasport di Montecatini in cui grida un metro sollevato da terra contro chissà che cosa.

Abbiamo imparato mille cose da lui quell’anno, io probabilmente più di tutti e alcune vorrei condividerle (come non mi piace questo sostantivo in epoca social), per far capire agli allenatori giovani cosa rende possibile il successo o meno di una squadra. A inizio stagione, la prima da professionista, stavo attentissimo a quelle che erano le richieste del mio capo-allenatore. Non cercavo in alcun modo di andare oltre e questo limitava il mio naturale modo di stare in campo. Con Sandro ci è voluto pochissimo ad andare d’accordo, è una persona schietta e onesta, perfetta per chi ha il mio carattere, però sportivamente non ci conoscevamo bene.

Dopo un mese circa, il Cacco fece irruzione in ufficio e mi disse diretto come era solito fare: “Non stai allenando! E invece sei qui per allenare!”. Gli risposi che stavo cercando di seguire consigli e desideri di Sandro e lui replicò: “Sì, certo, quello lo fai bene. Schemi, difesa, tutto. Ma tu non alleni così! Se uno non stende le braccia, glielo devi dire! Se un americano non si piega per difendere, glielo devi dire! Se uno fa un passaggio con una mano e lo deve fare con due, glielo devi dire! Sei qui per questo, il resto lo sanno fare tutti”. Non ci dormii tre notti. Quei trenta secondi mi hanno fatto diventare un professionista, perché mi fecero capire che non c’è differenza (tecnica) nell’allenare campioni o ragazzi. Chiaro che sono diverse le modalità di intervento, ma non è diverso l’intervento. All’interno di un sistema evoluto, rimangono giocatori e la differenza tra vivere e morire sta nel produrre un effetto sul loro modo di giocare che porti alla massima efficienza.

Fare la scelta giusta non porta a niente se la tecnica non può gestire la scelta.

Il secondo momento determinante fu il racconto di un aneddoto. Gianfranco mi disse che allenava una squadra in serie A ed il suo miglior tiratore era un italiano (di stranieri ce n’erano due al massimo… Ci stava che potesse succedere). Ad un certo punto della stagione, improvvisamente, quest’ultimo iniziò a non giocare bene. Sembrava anche molto preoccupato, nervoso in palestra, per nulla concentrato. Invece di arrabbiarsi, il Cacco cercò di capire il motivo del nervosismo e scoprì che questo giocatore aveva cambiato casa ed il suo cane (un pastore tedesco) non riusciva ad abituarsi, distruggendo l’appartamento nuovo ogni volta che era lasciato solo. La soluzione fu di portare il cane in palestra, legarlo a bordo campo, sorbirsi qualche abbaio ma rasserenare il tiratore che iniziò di nuovo a far canestro.

Prendersi cura dei propri giocatori.

Se vogliamo che la nostra squadra renda al meglio, dobbiamo conoscere le persone, sapere come amano comportarsi, capire le problematiche che hanno. Tanto più importante oggi, in un momento in cui la provenienza differente dei giocatori produce abitudini sociali differenti.

La teoria del buon senso applicata all’auto-esigenza. Costruire una mentalità vincente non può prescindere dal buon senso. Se un giocatore non è funzionale a un modello è un conto, ma se un giocatore ha tutte le caratteristiche per stare all’interno di un sistema, ma in qualche modo non funziona, credo si debba porsi la domanda fondamentale.

Cosa posso fare per aiutarlo? Perché le cose non vanno?

Dobbiamo avere la forza di porci come soggetto del problema e conseguentemente agire. Correggendo, capendo, aiutando. Perché i giocatori capiscono sempre se stiamo dando loro strumenti per migliorare o se li stiamo solo usando in modo strumentale (citazione di Ettore Messina non in maniera corretta).

Però arriverà un momento in cui chiederemo ai nostri giocatori di gettarsi nel fuoco assieme a noi e la vittoria o la sconfitta dipenderanno dalla loro risposta… Se sarà “Andiamo!”, potremo farcela, ma se sarà “Perché?”, sarà troppo tardi anche per provare.

Marco Sodini

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