Arrivederci, Kobe: senza alcuna pietà

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Per qualcuno che ha sempre amato scrivere è difficile non riuscire a trovare le parole. Lo è ancora di più per qualcuno, come il sottoscritto, il cui più grande sogno è sempre stato quello di diventare giornalista.

Eppure, la sera del 26 gennaio, è stata una delle poche volte nella mia vita in cui sono rimasto in silenzio, distrutto dalla notizia della morte di Kobe Bryant, il mio idolo, il giocatore che mi ha fatto innamorare del basket e che mi ha aperto le porte del meraviglioso mondo NBA.

Il mio primo ricordo di Kobe è legato indissolubilmente a mio padre, nel 2002, quando ancora la pallacanestro per me era un mistero, mi raccontava delle imprese del numero 8 e del numero 34 dei Los Angeles Lakers, la squadra per cui tifava, fresca di Three-peat, trascinata in campo dalla potenza di Shaquille O’Neal e dalla classe di Kobe Bryant, magistralmente guidati in panchina da Phil Jackson. Da quel momento, Bryant è diventato per me una figura mitologica, più simile a un dio dell’antica Grecia che a un giocare di basket. Ricordo la separazione da Shaq, le stagioni buie dei Lakers dove l’unico barlume di luce lo accendeva lui, con la sua immensa classe e quella rabbiosa voglia di vincere e migliorarsi in ogni momento che a tanti ricordava quella di un altro mito del gioco, Michael Jordan. Ricordo con dolore il 2008 e quel titolo perso in finale contro i Boston Celtics dei Big Three, dopo una stagione da incorniciare, fresco di titolo MVP, al fianco di Gasol e alla guida di una squadra finalmente competitiva e pronta a seguirlo nella sua rincorsa alla vittoria, la sua vera, unica, ossessione. Quei successi finalmente ottenuti nel 2009 e nel 2010, a dimostrazione del fatto che sapeva vincere anche senza Shaq al suo fianco, che il Black Mamba aveva ancora veleno nelle sue zanne e che tutti gli altri, per essere anche solo considerati tra i grandi del basket NBA, avrebbero dovuto fare i conti con lui, il padrone della Città degli Angeli.

Da lì un lento, ma inesorabile declino cestistico, quasi a dimostrare che anche gli dei alla fine devono arrendersi al passare del tempo. L’ossessione per la vittoria, vero punto di forza del Mamba nel corso della sua intera carriera, si stava lentamente trasformando nell’ossessione per il sesto anello, quello della consacrazione definitiva, quello che lo avrebbe consegnato di diritto alla mitologia del gioco, al fianco di Jordan, amico, rivale e grande obiettivo di Bryant nel corso della sua intera carriera. Un titolo che non sarebbe mai arrivato e che avrebbe finito per iniziare a consumare l’anima di Kobe, ormai non più supportato dal fisico, sempre più fragile. La rottura del tendine d’Achille nel 2013 è stato un colpo al cuore, ma vederlo rientrare in campo zoppicante a segnare quel secondo tiro libero, prima di avviarsi verso gli spogliatoi, mi ha dato ulteriore conferma della grandezza di quell’uomo, che era capace di guardare negli occhi il dolore e, quasi in modo beffardo, avere l’ultima parola anche in quel frangente.

Perché era Bryant ad avere sempre l’ultima parola. In ogni situazione. Zittiva le critiche con i fatti, dando battaglia sempre e su ogni campo, anche quando la sconfitta era certa. Le critiche dovute al suo ultimo e principesco contratto piovevano su di lui incessanti, accusandolo di pensare più a se stesso che alla sua franchigia. Bryant le inghiottiva e sputava veleno, rispondendo sul parquet. Il Black Mamba era così, leader indiscusso, con lui era obbligatorio schierarsi, o si era con lui oppure contro: tifosi, compagni e avversari lo hanno provato sulla loro pelle, me compreso. Io sono uno di quelli che Bryant lo ha sempre amato, l’ho considerato il condottiero dei Lakers in ogni momento, persino quando, negli ultimi anni, navigavano malinconicamente nei bassifondi della Western Conference. Poi è arrivato il 2016, il canto del cigno, o per meglio dire, l’ultimo sibilo del Black Mamba. Quella lettera a metà tra un addio e una dichiarazione di amore eterno alla pallacanestro, quel Farewell Tour con l’intera NBA a riconoscere la sua grandezza, quell’ultima partita allo Staples, con 60 punti segnati di fronte ai suoi tifosi e quel discorso finale concluso con “Mamba Out”, una coppia di parole diventata un cult. Aveva lasciato il mondo NBA, ma non ha mai smesso di competere, riuscendo a vincere persino un premio Oscar, ulteriore prova della sua grandezza.

Poi, domenica sera, il vuoto. In una serata come tante mi sono ritrovato a fissare lo schermo del mio smartphone, dove avevo appena ricevuto un messaggio brutale e diretto: “Ma è morto Kobe…”. Quella sera qualcosa si è rotto per sempre dentro di me, come se avessi realizzato che la tua favola era finita davvero, ma questa volta per sempre. Ho impiegato quasi due giorni per elaborare e trovare le parole per descrivere quello che sei stato per me, e non sono nemmeno sicuro di esserci riuscito appieno.

Ho avuto la fortuna di vederti giocare  dal vivo allo Staples Center, nel 2013, contro i tuoi rivali di sempre, i Celtics. Ho avuto la fortuna di vederti segnare. Ho avuto la fortuna di gioire dei tuoi trionfi e rammaricarmi per le tue sconfitte.

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Nella notte di domenica, mentre ripensavo a quello che era appena successo a te e alla tua piccola Gianna, mi è tornato alla mente un episodio. Finali della Western Conference 2009, Lakers contro Nuggets, serie sul 3-2, Gara 6, partita decisiva per l’accesso alle Finals. Flavio Tranquillo e Federico Buffa commentano la vittoria dei Lakers, trascinati dal solito Bryant, e ripetono come un mantra le parole “No Mercy” (nessuna pietà), uscite poco prima dalla bocca del Mamba, per incitare i suoi compagni a continuare a segnare e colpire l’avversario ormai sbaragliato e sotto di 20 punti. Quelle due parole sono per me l’essenza di Kobe Bryant. Nessuna pietà, per nessuno, nemmeno per chi è già al tappeto. Quasi per un beffardo scherzo del destino, nemmeno la vita ha avuto pietà di te e della tua piccola Gianna, quando quel maledetto elicottero su cui viaggiavi si è schiantato al suolo.

Te ne sei andato da giovane come James Dean, sconfiggendo persino il passare del tempo. Diventando, se possibile, ancora di più un’icona di questo bellissimo sport. Tutti ti ricorderanno ancora nel fiore dei tuoi anni, con quello sguardo beffardo, glaciale e pieno di sfida.

Arrivederci Mamba, da tifoso dei Lakers e soprattutto da amante del Basket. Non ti dimenticherò mai.

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