Insegnare o allenare?

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Quando un giovane giocatore finisce il proprio percorso di settore giovanile, in qualsiasi parte del mondo sia stata sviluppata la propria formazione, si trova ad affrontare un gap nel livello di gioco decisamente alto, specie se introdotto in un contesto professionistico. 

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A fronte di una metodologia di allenamento basata sull’insegnamento (almeno così dovrebbe essere) volta esclusivamente a migliorare tutte le capacità del ragazzo, improvvisamente il nuovo ambiente richiede di essere immediatamente efficienti e la tolleranza agli errori diventa decisamente minore.

Questo cambio di mentalità raramente non provoca nel giocatore una sorta di confusione che corrisponde, talvolta, ad una vera e propria involuzione tecnica, mal sopportata dal ragazzo, dallo staff tecnico e normalmente dalla squadra. In aggiunta a tutto ciò, va valutato che i giocatori inseriti nei roster delle prime squadre sono stati normalmente giocatori dominanti a livello di settore giovanile e passano quindi da una posizione di prestigio a una condizione diametralmente opposta, in cui ogni cosa deve essere dimostrata col sudore e anche questo non sarà sufficiente almeno nel breve termine.

La chiave di lettura per risolvere un problema di questo tipo può essere prima di tutto la chiarezza. Il dialogo con i giocatori è una delle chiavi del successo nell’alto livello. Non si può prescindere da una totale condivisione degli obiettivi, dalla spiegazione per cui gli obiettivi vengono proposti e da una compartecipazione al progetto comune di migliorare il gruppo per ottenere risultati.

Seconda per importanza, ma prima per considerazione da parte degli atleti, la chiarezza nei ruoli. In ogni squadra i giocatori sono entità differenti, ciascuna con la propria personalità, con il proprio compito all’interno del progetto di sviluppo del gioco e chiarire questo aspetto diventa determinante nel corso di una completa stagione agonistica. Troppo spesso si generano aspettative sbagliate in assenza di una corretta comunicazione.

All’inizio della stagione, vuoi per valutazioni legate ai carichi di lavoro, vuoi per la necessità di sopperire ad assenze provocate da fisiologici piccoli infortuni, alcuni giocatori che in campionato avranno pochissimo o addirittura alcuno spazio, vengono impiegati più del necessario. Raramente la realtà, che questo sia un momento transitorio, è compresa se non c’è un continuo e corretto confronto su quelle che sono le dinamiche del gruppo. A maggior ragione per un ragazzo giovane che alla prima esperienza si fa forte delle cose fatte bene in una gara senza magari rendersi conto che la propria freschezza, al termine della preparazione pre-stagionale, non sarà sufficiente per essere altrettanto d’aiuto alla causa comune. 

crespi veronaFatte le debite promesse, possiamo porci il quesito: come aiutare a crescere il ragazzo? Semplicemente usando le proprie capacità attuali al servizio della squadra oppure sacrificando qualcosa di questo aspetto per permettere al giovane giocatore di sperimentare cose che lo migliorino in prospettiva?

Pur non esistendo una ricetta comune, esprimo la mia opinione riguardo a questo, fondata sulle esperienze dirette di vivai di squadre di alto livello che hanno sempre fatto esplodere a livello professionistico giocatori giovani, prodotti seguendo una linea tecnica comune (Livorno che ora non esiste più per problemi economici e Bologna). Il gruppo-squadra deve essere messo al corrente della presenza di giocatori giovani che possano avere grande margine di miglioramento ma che pecchino d’inesperienza ad inizio progetto. Si dovrebbe poi chiarire ai giovani talenti che il loro impegno dovrà essere ben oltre il normale e cercare di aiutarli nel costruire i rapporti con i veterani del team. 

Non far soffrire la squadra proponendo situazioni che i ragazzi potranno affrontare domani. La squadra deve essere pronta oggi. I giocatori devono sapere dove sono affidabili e dove non lo sono e la frase “Se sei libero tira” dipende dalla tua capacità di segnare, non è un dogma da accettare comunque (a livello senior si cerca di far tirare il giocatore che abbia percentuali più basse, mentre viceversa i sistemi di gioco sono pensati per avere più conclusioni possibili ai giocatori con percentuali migliori).

Una volta resi edotti tutti del modo in cui debbano oggi stare in campo, si può prevedere un piano di sviluppo individuale che però in qualche modo sia inserito coerentemente nel sistema complessivo della squadra. A questo punto, a fronte di un impegno ineccepibile e di un effettivo miglioramento del singolo giocatore rispetto ad un gesto o ad una situazione di gioco, si può pensare di far “digerire“ alla squadra una situazione in cui il ragazzo possa sperimentare il proprio miglioramento e in astratto la squadra possa trarre vantaggio da quel miglioramento. Il fatto che il gruppo accetti la nuova situazione è determinante per non incorrere in frustrazioni reciproche, prima di tutto tra i giocatori che potrebbero non accettare che dei tiri che prima non venivano presi adesso siano presi, poi dal giocatore stesso che potrebbe innervosirsi per la mancata efficienza di qualcosa che non è ancora presente tra le proprie certezze, e per ultimo nello staff tecnico che in ogni caso rispondendo dei risultati non valuta la produttività della nuova situazione un vantaggio per i risultati del gruppo. 

paolini pesaroUna serenità di fondo ed una schietta sincerità unita ad una buona comunicazione (in cui diventa determinate il ruolo di collante degli assistenti), può invece aggiungere un plus valore alle energie spese per migliorare il giocatore.

Riassumendo, in questa nota, complicata e più tecnica delle precedenti, la scelta auspicabile quando si ha a che fare con giovani talenti è allenarli, rendendoli immediatamente fruibili dalla squadra, senza però rinunciare ad insegnar loro cose nuove che portino il loro gioco ad un livello più alto.

Se la scelta è questa, diventa fondamentale capire l’importanza di veicolare il lavoro di miglioramento individuale in modo che sia utile al miglioramento complessivo e di conseguenza gestire il rapporto tra l’uno e i molti in modo che il processo di miglioramento individuale venga “preso a cuore“ anche dai compagni, dallo staff e dal management stesso ed il successo del programma sia condiviso in ugual misura.

In sintesi: allenare può essere insegnare ed insegnare è sicuramente allenare!

Marco Sodini

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