Gary Payton – The Glove

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Parlavo giusto l’altro giorno con un mio amico d’infanzia, grande appassionato di pallacanestro anche lui, che ad un certo punto mi chiede:

“Ma se io ti dico Defensive Player of the Year, tu a che cosa pensi?”

Con sicurezza ed un pizzico di arroganza, inizio ad elencare i grandi difensori della storia NBA: Bill Russel, Olawujon, Mutombo.. Lui mi interrompe esclamando sorpreso: “ E the Glove?”

The Glove chi?!?! Gary Payton Gary Dwayne Payton: l’unico playmaker della STORIA ad aver vinto il premio di miglior difensore dell’anno nella Lega più amata del mondo (stagione 1995-1996).

Nasce a Okland, west coast, nel 1968. Okland non è uno dei posti più sicuri sulla faccia della terra oggi, figuriamoci agli inizi degli anni ’70 per una famiglia di afroamericani. Al ed Annie Payton lo sanno e dopo mille sacrifici riescono a traslocare. Gary ha solamente 5 anni, ma questo potrebbe essere il singolo evento che gli cambia la vita. Perde tutte le amicizie che aveva, ma forse è meglio così. Se ne fa molti al liceo, di amici, alla Skyline High School: il suo talento e la sua aggressività conquistano tifosi e compagni, mentre l’allenatore stravede per lui.

Però non basta per convicere le università ad offrirgli una borsa di studio.

Qui entro nuovamente in gioco papà Al, che in quel periodo faceva 3 lavori contemporaneamente per permettere al figlio di avere sempre qualche soldo in tasca e non andare a cercarseli per strada. Visto che siamo negli anni ’80 e non esistono i tornei ACC come li conosciamo oggi, Al fa in modo che la squadra dove gioca Gary abbia i soldi necessari per partecipare ai tornei più prestigiosi (vedi Las Vegas e Los Angeles), che risulteranno da qui a breve fondamentali per la sua carriera.

A St. John’s (New York) rimangono folgorati dal suo stile di gioco, ma Lou Carnesecca, che allenava proprio a St. John’s in quel periodo, annulla l’offerta dell’università. Il perchè? Non si fidava del giocatore. Gary è ferito nell’orgoglio e rimane distrutto dalla vicenda: non riesce ad accettare questa cosa. Sconsolato, lascia decidere alla madre quale collegge dovrà frequentare ed Annie alla fine opta per Oregon State University. Payton draft

Gli anni al college sono tanto spettacolari a livello personale quanto fallimentari a livello di squadra: è proprio in questi anni che il talento di Oakland si forma e impara i segreti del mestiere. Intendiamoci: la difesa era sempre stata il suo biglietto da visita, ma quella mostrata poi nella NBA è proprio ad Oregon State che la perfeziona. Chiude l’ultima stagione delle quattro trascorse a 25.7 punti di media, conditi da 8.1 assist.

Seconda scelta assoluta al Draft 1990. Si parte.

Venne scelto dagli allora Seattle Supersonics (sigh) che in panchina avevano coach K.C. Jones, storico allenatore dei Boston Celtics annate 1983-1988. Il rapporto tra i due non è mai decollato per un semplice motivo: Payton non aveva la testa di Bird, ma soprattutto Bird non aveva la testa di Payton. Dua anni di inferno per il nostro. Poi la rinascita. Scambio in panchina: il nuovo head coach dei Sonics è George Karl.

Payton e Karl sono due duri, persone dal carattere forte, ma il rispetto è alla base della loro intesa e questa squadra è destinata a far sognare i propri tifosi. Nella Regular Season vanno forte, ma nei playoff si fermano troppo spesso e troppo presto. Nel 1996 finalmente la squadra è compatta e vanta nomi di prestigio nel roster: abbiamo Nate McMillan, Detlef Schrempf, Sam Perkins e Shawn Kemp. Arrivano in finale dopo aver vinto gara 7 delle Finali di Conference contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone. Si và subito sotto 3-0 contro sua maestà Michael Jordan e i Chicago Bulls. Payton e Kemp si caricano la squadra sulle spalle, tentano un’insperata rimonta, ma alla fine devono arrendersi alla storia.

Tutti hanno come l’impressione che l’occasione sia stata sprecata. Che il ciclo sia ai titoli di coda.

Karl lascia Seattle e nel giro di pochi anni la squadra inizia a sfaldarsi. Payton dopo 13 anni in maglia verde-gialla decide che è arrivato anche il suo turno. Disputa mezza stagione a Milwaukee, ma poi viene subito scambiato ai Los Angeles Lakers, che vogliono tornare a vincere l’anello NBA e placare in qualche modo i primi litigi tra Kobe e Shaq.

Nel 2004 la squadra si rinforza ed inserisce a roster due futuri hall of famer (Payton e Malone) e un discreto centro quale Horace Grant. La storia la conosciamo tutti: è l’anno dei favolosi Pistons targati Larry Brown, che vincono trascinati da una squadra che non ha eguali per compattezza e spirito di gruppo. lakers 2004Gary Payton aveva vinto tanto in carriera, si era fatto un nome nella Lega e tutti lo indicavano come futuro Hall of Famer. Ma gli mancava un titolo. Ha vinto  2 ori olimpici (Atlanta 1996 e Sidney 2000), vanta 7 convocazioni all’NBA All Star Game e 9 inclusioni nel Primo Quintetto Difensivo. Ma non gli basta. Non gli era mai bastato.

Essere in duro per me era molto importante perché è così che sono cresciuto

Un titolo alla fine lo vincerà: Pat Riley lo ha voluto con sè nel 2006 per i suoi Miami Heat. Un titolo tanto bello quanto speciale per Payton stesso. Il suo compito era portare esperienza ad un gruppo relativamente giovane, non certo quello di risultare FONDAMENTALE per ribaltare le sorti di una serie che i Mavs stavano guidando per 2-0.

Quella tripla allo scadere ha permesso agli Heat di vincere gara 3 e poi chiudere definitivamente sul 4-2. Fa sorridere il fatto che non sia mai stato un tiratore: in carriera “vanta” il 46.6% dal campo e il 31.7% dalla lunga distanza.

Payton e JordanLa sua specialità era entrare nella testa dei giocatori. Esiste trash talk e trash talk, ma il suo modo di atteggiarsi in campo era unico e probabilmente inimitabile: il solo giocatore che manteneva sul campo le promesse fatte a voce. Molti “colleghi”  si davano malati pur di non dover affrontare Payton su un campo da gioco. Non ha mai avuto paura di nessuno, il suo gioco era sempre aggressivo, “faccia a faccia” con il suo diretto avversario. E poi c’è quel sorriso. Diamine quel sorriso avrebbe fatto uscire di testa anche Tim Duncan.

Non è mai stato un realizzatore puro, non ha mai sostenuto di essere un tiratore e non è mai parso che fosse il classico playmaker che sforna assist a destra e a sinistra. Non per questo non si è mai tirato indietro, si è sempre preso le sue responsabilità. Il passaggio da stella indiscussa a campione lo abbiamo quando è riuscito a capire che non poteva più essere il centro del gioco, ma doveva giocare per la squadra.

In spogliatoio ha sempre detto la sua, con educazione e con rispetto, senza però mai farsi mettere i piedi in testa da nessuno. La sua intensità difensiva è passata alla storia, quanto la sua voglia di vincere e di non arrendersi mai. Il capitano è l’ultimo ad abbandonare la nave? Payton era l’ultimo ad uscire dal campo.

Nel 2013  viene nominato per entrare nella NBA Hall of Fame di Springfield: forse il riconoscimento personale più importante della sua carriera.

O forse no.

Rimane sempre quel trofeo là, nella bacheca di casa Payton, NBA Defensive Player of the Year, che lo rappresenterà per tutta la vita. Perché Gary Payton è si l’unico playmaker nella storia ad aver vinto quel premio, e probabilmente lo sarà per sempre, ma noi, sono più che sicuro, ce lo ricorderemo anche per tutto il resto.

Giovanni Aiello

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