L’allenatore dei Denver Nuggets, Mike Malone, non sembra molto propenso a godersi il titolo NBA.
Poco spazio per i festeggiamenti dopo la conquista dell’anello, il coach pensa già alla possibile dinastia che la sua squadra potrebbe aver aperto con questo successo.
Questo è l’inizio di qualcosa di grande, non la meta finale del viaggio. Sono entrato in questa lega 23 anni fa da assistente e sognavo di diventare da head coach. L’ho imparato da Pat Riley: entri che non sei nessuno, diventi uno che lotta per emergere, poi un vincente, successivamente diventi un contender e poi quello che vince, un campione. Ma da campione punti a costruire una dinastia e noi non ci accontentiamo di aver vinto. A Denver non era mai accaduto ma non siamo appagati.
Poi le dediche ai familiari, ai coach che lo hanno allenato e quelli con cui ha lavorato in passato. Ma il pensiero più bello è per Michael Porter Junior, protagonista di Finals un po’ sottotono ma importantissimo per i successi precedenti.
Non va giudicato solo sulla base delle Finals, non gli è entrato il tiro a fuori ma nelle semifinali con i Suns o al primo turno con Minnesota è stato fondamentale, così come per tutto il resto della stagione. Parliamo di un ragazzo ancora giovane, che ha saltato tutta la stagione da rookie, che lo scorso anno ha fatto solamente 9 partite. Migliorerà ancora perché non ha mai mollato e non si è mai pianto addosso. C’è una poesia di D.H. Lawrence intitolata “Self-Pity” (autocommiserazione, ndc) ma lui non l’ha mai fatto. “Non entra il tiro? Ok farò altro per aiutare la squadra”, così pensa un campione.
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