Kyrie Irving: notte prima degli esami

Rubriche

New York. Settembre 1996.

“Ma la notte tardi vieni qui e mi prendi le mani
il tuo sguardo si fa serio e poi mi parli, e dici
questa volta io ritorno per restare, per sempre.
Ma finisce che era un sogno
al mio risveglio io ti cerco e non so dove sei. “

Le parole sono quelle inconfondibili della canzone di Neffa “Dove Sei”. Non canta nessuno. Elizabeth Irving non ce l’ha fatta, una malattia cardio-vascolare ha stroncato la sua breve esistenza. Lascia un marito, Drederick, e due figli. Il più piccolo, Kyrie, ha solo quattro anni e sta tornando dall’ospedale con un pallone in mano.

New York. Settembre 2001.

“Driiiin, driiiinn, driiinnn”.

Il suono è quello inconfondibile di un cellulare che squilla. Nessuna risposta. Dall’altra parte della cornetta c’è Drederick Irving, financial planner alla Garvan Securities, agenzia finanziaria con sede nella Torre Nord del World Trade Center. Drederick ha fatto tardi al lavoro quel giorno e mentre sta correndo in fretta e furia per raggiungere la sua scrivania sente un enorme frastuono provenire proprio dal suo ufficio.

“Driiiin, driiiinn, driiinnn”.

Drederick  sta chiamando ogni collega. Nessuno risponde. Kyrie Irving ha 9 anni e sta palleggiando con lo zio in cortile, a casa sua.

New Jersey. Settembre 2009.

Una domenica di un malinconico Settembre Kyrie si alza dal letto quando l’aria è ancora fresca. Un post-it sul frigo della cucina è lì ad attenderlo. Niente di nuovo. Sul piccolissimo foglio giallo sono impresse due righe scritte a penna, la calligrafia è molto curata ed i numeri sono molto più grandi delle lettere come a sottolineare la loro importanza. Kyrie non sembra assolutamente sorpreso dal post-it, lo legge con attenzione mentre prepara la colazione ripetendo ad alta voce quello che ha appena letto.

“Buongiorno Kyrie:

2 sessioni di arresto e tiro da 800 ripetizioni. Zig zag tra i coni che troverai già posizionati sul campo e rilascio della palla esattamente nel quadrato alla fine dei percorso.
2 sessioni di tiri liberi da 100 ripetizioni consecutive.
Buon allenamento.

Papà.”

Kyrie sale di nuovo in camera prende un pennarello e scrive sul muro: “I WILL PLAY IN THE NBA”.

Spagna. Settembre 2014.

Siamo nel terzo quarto di un mach tiratissimo tra il Team Usa e la Nazionale Turca. Le due squadre sono pari a 53 punti quando Irving batte il proprio marcatore facendo passare il pallone dietro la schiena e anticipa l’aiuto di Asik imprimendo al pallone una traiettoria ampissima, quasi come un moto di un proiettile. La palla a spicchi sembra quasi toccare le volte del palazzetto quando ricade nel canestro senza neanche muovere la retina. Un canestro sontuoso, sensazionale. Un arcobaleno senza colori ma che invade l’anima di chi lo guarda. Viene avvicinato a fine partita da un giornalista. Le domande sono sempre le stesse.

“Ti senti pronto? Il prossimo anno si fa sul serio”
“Difensivamente devi migliorare, non credi?”
“Con Lebron pensi che riuscirete a coesistere?”
“Ti senti capitano della nave Cleveland Cavaliers?”

Ogni giorno un post-it diverso. Ogni giorno una nuova canzone, un telefono che squilla.  Ogni giorno un nuovo esame da superare. In testa sempre la stessa frase:

“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.

La rotta è sempre la stessa. I WILL PLAY IN THE NBA.

Gabriele Manieri
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