Tra angeli e fantasmi: viaggio nella New York del Basket (lontano dalle luci)

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Si gioca di notte nei campetti illuminati dalle luci delle sirene. Ferri marci, palle sgonfie, cemento crepato e ondulato, ma non importa: tra quel campetto di Brooklyn e il Madison Square Garden non c’è alcuna differenza. “My bad my fault, bad shot, sorry guys” che si mischia con “I’ll fuckin’ kiss your ass”. Puoi non aver mai toccato una palla a spicchi in vita tua ma chiunque ti troverai di fronte, da Michael Jordan a tuo cugino, avrai una sola certezza: lo metterai col culo per terra. O almeno, finchè sarete sul campo, non smetterai di dire altro, anche se la realtà si mostrerà diversa. “Kobe B in da house” ma hai solamente fatto un semplice appoggio. Che succede? Ti arresti per un attimo e realizzi. Quello che sta succedendo non è del tutto normale: stai calpestando un campetto della Big Apple. Ti guardi intorno nella notte brooklynese e ti accorgi che da lì molte cose hanno avuto inizio. E sei costretto a fermarti perchè forse non riesci a reggere tutto ciò. Stiamo parlando di basket? Stiamo parlando di molto di più. Forse perchè il basket a New York non si limita due franchigie. Forse perchè è qualcosa di terribilmente più grande.

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Da quando metti piede a New York ti è subito chiara una cosa: “I want to be part of it”, voglio far parte di tutto ciò, come cantava Sinatra nel ’79 sopra archi e trombe della sua formidabile orchestra.
Far parte di ciò è impossibile, semplicemente perché tu sei tu e lei rimane sempre lei. Puoi scalarla, viverla, mangiarla, ma per farne parte dovrebbe essere totalmente tua e totalmente tua New York non lo sarà mai. Rassegnati. Persino Sinatra l’aveva riconosciuto: “I want to”, voglio, ma forse non posso. La Big Apple è di tutti, proprio tutti, se no non avrebbe questo nome, e sarebbe considerata una qualunque città USA palazzoni e pick-up.
No, non sarai mai del tutto parte di ciò: ma lei diventerà senza alcun dubbio parte di te.
E’ difficile descriverla senza cadere nella banalità e diventare scontati. Se volete un’analisi sui suoi grattacieli chiudete il sito e prendete una guida turistica. Qua si parla di cose serie, e dato che parliamo di cose serie eviterei un copia-incolla storico sportivo da Wikipedia, dato che sarebbe solo una perdita di tempo.
Perciò prendetevi cinque minuti, e lasciate che vi racconti Manhattan..

Guai a considerarla l’unica New York che conta, guai a considerarla New York.
L’isola tra l’East River e l’Hudson River, lo skyline per eccellenza, forse un po’ troppo snob e troppo chic a sud di Central Park, forse troppo oscura a nord di esso. Parliamo di basket, e parlando di basket a Manhattan potremmo farci un libro a parte. Solo due punti vorrei salvare, o meglio due indirizzi: il primo è 4 Pennsylvania Plaza, il secondo è 155th Street-8th Avenue. Rappresentano di fatto i due volti di una stessa città, come quando cammini per Times Square tra le luci accencanti delle pubblicità e sotto i lampioni trovi i disperati a chiedere l’elemosina. Il primo è l’indirizzo del Madison Square Garden, l’arena più famosa del mondo (e sfido chiunque ad affermare il contrario). Del secondo parleremo dopo..
Nella storia del Madison Square Garden il Basket occupa un decimo, che dico, un quindicesimo dello spazio. E’ una storia centenaria, costruita sui sette piani della struttura e tra i suoi corridoi. Concerti, boxe, hockey, donne più belle del mondo che rendono una canzone come “Happy Birthday” un evento epocale: come ci si fa ad annoiare in un posto così?
E’ talmente potente che se non vuoi lasciarlo puoi anche comprare una delle suite al suo interno, basta che tu abbia qualche moneta in tasca e che non pretenda di dormire troppo in caso di evento sportivo (immaginate un padre che in pigiama si affaccia fuori ed urla “Fate silenzio, mio figlio deve dormire”, con Melo che chiede al pubblico di abbassare la voce).

Willis Reed vs Wilt Chamberlain
Willis Reed vs Wilt Chamberlain

Se tifi Knickerbockers non sei abituato a vincere; tra quelle mura di titoli se ne sono alzati solo due. Ma allora perchè racchiudi tutto questo fascino arena maledetta? Non ti si riesce a resistere, anche perchè il primo dei due titoli è letteralmente roba da museo: 4-3 contro i Lakers, con Gara7 vinta col tuo centro infortunato costretto a marcare un qualsiasi Wilt Chamberlain sotto canestro. Forse è per questo che quel titolo è tanto celebrato, forse è per questo che sui muri del Madison sono ancora presenti le reliquie di quella notte. E’ per questo, stavolta togliendo il forse, che Willis Reed è diventato uno dei primi miti sportivi della metropoli. Lui, il pivot del Sud, la scelta del ’64, aveva portato New York sul tetto del mondo. Quello del basket, ma è pur sempre un grande mondo. Nella Big Apple degli anni Settanta, quando in centro c’erano più sex shop che cinema, Willis Reed era diventato un angelo. La prima ala era spuntata nel ’70, la seconda nel ’73. Due volte MVP, ovviamente. Poi nulla, per la squadra nata nel 1946 i trionfi si chiudono qua; ma allora perchè racchiudi tanto fascino franchigia maledetta? Ci andranno vicino, con il figlio della Jamaica Pat Ewing, ma nulla da fare. E a giudicare dalla situazione attuale, i tifosi arancio-blu dovranno guardare a quel trofeo del 1970 ancora per un bel po’.
Del primo indirizzo ho detto tutto. Del secondo devo solo raccogliere un attimo le idee, perchè rischierei di impegnarvi troppo tempo prezioso. Farò il breve..

La linea D, il treno che ti porta ad Harlem.
La linea D, il treno che ti porta ad Harlem

Con la linea arancione raggiungi la fermata della 155esima strada. Sei a West Harlem: appena esci ti ritrovi sulla 8th Avenue, nella parte dedicata a Frederick Douglass, una delle più importanti figure afroamericane nella storia. Quando realizzi che sei nel cuore pulsante di Harlem ti viene quasi a mancare il fiato. Quei palazzi color mattone che si scagliano ovunque, la consapevolezza che forse anni fa avresti rischiato qualche pallottola vagante, sapere comunque di aver realizzato il sogno di molti, laddove tante cose sono partite. E’ difficile immaginare che Harlem si trovi sulla stessa isola di SoHo e Chelsea, ma fidatevi che è così. Il nome è una delle poche tracce visibili della passato olandese della città, dal momento che prende spunto dall’Haarlem europea. Già, la primissima New York, dopo quella dei nativi, in realtà era Nieuw Amsterdam, con gli olandesi che la colonizzarono nel 1626. Nel 1664, a seguito un assedio, passò sotto il controllo inglese, dopo che questi ultimi riuscirono ad abbattere il muro olandese dove ora sorge Wall Street (svelato il mistero del nome, ora potete vivere in pace). Ma non voglio farvi lezioni di storia, dai.

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Il concetto è che quello che ti trovi davanti, dopo aver attraversato l’8th, è un qualcosa dalle dimensioni reali ridotte, ma che in se racchiude tutto ciò che la leggenda può racchiudere, diventando quindi infinitamente grande, a tratti immortale: l’Holcombe Rucker Park. Smetto di cercare le parole per descrivere quel posto, perchè se tra qualche anno riuscirò mai a farlo sarebbe comunque un di meno di quello che realmente è. Il campetto per antonomasia, dedicato al prof che creò il torneo per togliere i ragazzi dalle strade negli anni Cinquanta, con modesti ma comunque netti e significativi risultati. Appena arrivato trovi della gente a lavorare, in pausa pranzo, e subito si accorgono che non puoi essere uno del luogo.

-Da dove venite?
-Milano, Italia
-Ah, è dove aveva giocato Brandon Jennings?
-No, quella è Roma…

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Fatto sta che si apre un discorso su cosa abbia portato un giovane europeo nel cuore afroamericano di New York. C’è bisogno anche di spiegarlo?
Quando cresci tra la strada ed un campetto puoi diventare due cose: un angelo o un fantasma. Per ogni angelo ci sono migliaia e migliaia di fantasmi, eterni per qualche partita, poi spariti per sempre. E Harlem è il santuario dei fantasmi del basket tra i palazzi. Joe “The Destroyer” Hammond, che passò da segnarne 50 in faccia a Dr. J a segnarne altrettanti nelle Prison League americane; Richard “Pee Wee” Kirkland, che più o meno ha fatto la stessa fine; Earl “The Goat” Manigault, la più grande leggenda mancata ai parquet, “il migliore di sempre” a detta di Lew Alcindor. E la lista potrebbe continuare ma a scrivere con le lacrime agli occhi si fa fatica. E quando ti siedi su quegli spalti non vorresti essere in nessun altro posto. Il Madison è lontano, il Barclays Center ancora di più, ma va bene così: stai guardando una partita ad Harlem, in pieno Luglio, col vento in faccia e il cielo blu, nessun’altra preoccupazione per la testa. Gli anni son passati, magari la distanza tra le due alternative al giorno d’oggi è ridotta, ma quei ragazzi di al massimo 17 anni (che durante la ruota di riscaldamento sparano airball da oltre l’arco ma schiacciano da fermi) sono i diretti discendenti di quei fantasmi e di quegli angeli che hanno reso quel posto La Mecca per tutti i malati come me. Eh già. Dal lavoratore in precedenza ti congedi con “Ho letto molte storie su questo posto”, e lui ti saluta con “Torna qui tra qualche settimana, e ne vedrai coi tuoi occhi di queste storie”.
Dai, mi vuoi far emozionare.

Coney Island.
Coney Island.

Su Harlem ho detto tutto, almeno per ora. Lasciare quel posto lascia un segno dentro che non vorresti mai toglierti, e mai ti toglierai. Pochi posti hanno lo stesso fascino, e tra questi ve ne è sicuramente uno, che se avete visto He Got Game conoscerete bene: Coney Island, dove tutto è meravigliosamente colorato (a parte il mare, quello fa schifo). Il Cyclone ti terrorizza, quella ruota panoramica ti segue ovunque, quel volto di clown dalla risata malefica ti perseguita, ma accetti tutto di buon cuore quando cammini sul boardwalk. “Nulla di buono è mai uscito da Coney Island” diceva qualcuno, e a giudicare dal posto non stento a dubitarne. “Tranne Stephon Marbury” rispondeva qualcun’altro, ma lui non conta. Nella disputa tra gli angeli e i fantasmi potremmo tranquillamente spedirlo insieme a quelli come Abdul Jabbar e Erving, con le dovute proporzioni, ma se nasci a Coney Island non puoi sperare che vada tutto a gonfie vele. Forse è per questo motivo o per altri un po’ più prettamente tecnici che ora lo troviamo radicato nel campionato cinese. Ma chi siamo noi per giudicare? Grande Stephon, porta in alto il nome delle tue origini su qualsiasi campo in giro per il mondo, che rimani comunque un modello di riferimento dalle tue parti.
Coney Island è la Brooklyn che da a pieno sull’oceano. No, non mi metterò a parlare dei Brooklyn Nets, e nemmeno dei New Jersey Nets se è per questo. Perchè il bianco nero dell’Atlantic Avenue è puro marketing, e noi stiamo parlando di argomenti drammaticamente umani e veri, che i soldi non potranno mai sporcare.
Ecco perchè nel parlare del basket a New York non vi ho parlato di Melo o di Jay-Z, ma vi ho parlato di quello che succede tra il cemento metropolitano della città più famosa del mondo.

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C’era un campetto di Brooklyn dove andavo sempre. Qualche volta mi fermavo a fissare la strada, alla sera, con le auto che passavano sotto ai semafori gialli e a quelle case di al massimo due piani. E riflettevo, riflettevo su quello che stava accadendo: io, abituato a calcare il Dezza, in quel “mood” post partitella anche dall’altra parte dell’Oceano. Ero là, dove le stelle NBA cominciano a brillare e dove le meteore del ghetto cominciano a cadere; dove un nulla decreterà se diventerai un angelo o un fantasma del cemento; là, dove tutti sono LeBron James e Larry Bird. Essenzialmente ero là, su un playground newyorkese.
E più ci pensavo, più mi veniva da mettermi le mani nei capelli e alzare la testa verso la notte della città che non dorme mai.

Forse non potrai mai possedere l’Empire State Building o la Statua della Libertà, ma un po’ angelo e un po’ fantasma sarai per sempre parte di quel campetto, e quindi parte di questa maledetta città, che forse è troppo difficile da provare a descrivere in termini normali.

Non serve parlare dell’NBA per parlare del Basket a New York. Basta solo avere il cuore aperto, e lasciarsi trasportare dalla devozione per quella palla arancione tanto potente quanto perfetta.
E se son riuscito a trasmettervi anche solo un decimo di quello che provato io, allora ho fatto un buon lavoro.

Grazie New York, ci rivediamo presto.

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Gabriele Buscaglia

1 thoughts on “Tra angeli e fantasmi: viaggio nella New York del Basket (lontano dalle luci)

  1. Ciao Gabriele.
    Una persona a te molto vicina mi ha dato da leggere il tuo articolo perchè voleva (forse) stemperare il suo giusto orgoglio di parente con un parere (in questo caso il mio) che le poteva sembrare obiettivo e non di parte. Ebbene, sono rimasta immensamente colpita dal tuo reale talento di narratore. Hai saputo rendere appieno quell’atmosfera così unica che regna in un angolo della terra e che si trova nella città più famosa del mondo (come hai detto tu) e che è la culla del Basket, il quartiere di Harlem.
    Le atmosfere, le persone incontrate, i luoghi materiali sono stati colti da te con rara emozione e bravura descrittiva senza mai cadere nell’ovvio o il patetico. La nostalgia da cui sei stato travolto e come pure da quella emozione difficile da descrivere, hanno sicuramente toccato anche chi ti ha letto; almeno a me l’ha fatto e oso pensare che in te ci sia davero il talento per diventare uno scrittore non solo sportivo ma anche di altri argomenti esistenziali che sicuramente non mancherai di cogliere nel tuo prossimo e lontano futuro. Molte persone, overall fra i giovani, hanno voglia di cimentarsi nella scrittura pensando di arrivare al best seller e per cui si tende “all’inondazione” con più o meno esiti felici. Ma devo dire che se manca la passione e il desiderio di affrontare onestamente anche dei veri sacrifici per ottenere risultati al top e che non siano all’insegna del mediocre successo, lo scrivere può essere anche una perdita di tempo per chi legge oltre che un inganno fra lo scrittore e il lettore. Mentre in te c’è la vera passione, non solo per il Basket e quel suo mondo incredibile, ma anche per l’espressione di quanto faccia sorgere in te la sua esplorazione.Già, non è facile scrivere di passioni.
    Spero di leggere ancora tanto di te, e quando sarà il tuo momento, io come letterice ci sarò.

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