Blake Griffin si racconta: “Ecco com’era lavorare per Sterling”

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Non appena la registrazione che incriminava Donald Sterling per razzismo fu pubblicata, a Giugno, tutti si chiesero come giocatori di colore come Chris Paul, DeAndre Jordan o Jamal Crawford potessero essere scesi in campo alle dipendenze di un uomo che li considerava nient’altro che oggetti per arricchirlo e che a livello umano si discostava il più possibile da loro.

Nessuno, o quasi, si chiese invece cosa pensasse di tutto ciò Blake Griffin, uno dei pochi giocatori bianchi dei Clippers. Ad essere precisi, il numero 32 non può essere considerato propriamente “bianco”, in quanto il padre, come i lineamenti e lo spiccato atletismo fanno presagire, è afro-americano. Il giocatore, terzo nella corsa all’MVP vinto da Durant nella passata stagione, ha preso carta e penna (o tastiera e mouse) ed ha scritto un lungo articolo su The Players’ Tribune, il sito messo in piedi da Derek Jeter, leggenda del baseball, per far raccontare agli atleti la propria storia.

Il prodotto di Oklahoma esordisce raccontando il primo incontro con Sterling, nel 2009, al White Party a casa del proprietario dei Clippers, festa che l’80enne organizza ogni anno.

Sterling iniziò col prendermi la mano. Come fanno le donne anziane, ti prendono la mano toccando con poche dita il dorso per guidarti da qualche parte. Subito comparvero due modelle bionde, chiaramente assunte per l’evento. Lo capii perché avevano due magliette XXXXL dei Clippers legate alla vita. Guardai Sterling, che aveva un muto sorriso stampato sulla faccia. Guardai allora una delle due ragazze come per dire “Non devi farlo”, ma lei ricambiò lo sguardo come dicesse: “Uh, si che devo”.

Poi Sterling mi presentò alle persone presenti alla festa: “Ehi, avete già conosciuto la nostra nuova stella? Questo è Blake, la prima scelta assoluta in tutto il Draft. La numero uno! Blake, da dove vieni?”. Risposi che arrivavo dall’Oklahoma. Lui esclamò: “Oklahoma! E dì a queste persone, come trovi Los Angeles?”. Dissi che era fantastica. Sterling proseguì: “E ora dì, come trovi le donne di Los Angeles?”. Essendo il mio capo, non cercai di allontanarmi o lasciare la festa. Domandatevi, se il vostro capo si comportasse così, cosa fareste?

Quando i Clippers mi scelsero nel Draft del 2009, una delle prime cose che feci fu andare a cercare su Google chi fosse Donald Sterling. Il primo risultato che lessi fu “Donald Sterling è un razzista”. Il mio pensiero fu: “Wow, se quest’uomo è un razzista, come fa ad essere proprietario di una franchigia?”

L’incidente che accadde con Baron Davis [il proprietario prese il giocatore per il collo dopo una partita, ndr] nella stagione 2010-11 non finì su SportsCenter e nemmeno sui quotidiani locali. Se vi state chiedendo come un razzista possa possedere una squadra in NBA, chiedetevi prima come un proprietario di una franchigia possa urlare al suo miglior giocatore davanti a migliaia di persone e telecamere.

Quando, dopo la pubblicazione della registrazione, Sterling durante un’intervista affermò: “I miei giocatori mi amano”, la cosa diventò quasi comica. Io e Chris [Paul, ndr] ci guardammo da un estremo all’altro della stanza e ci trattenemmo dallo scoppiare a ridere.

Steve Ballmer [l’attuale proprietario dei Clippers, ndr] ha come obiettivo la vittoria dei Clippers, a Sterling non interessava che vincessimo, a meno che non implicasse che avrebbe dovuto spendere dei soldi. Non si trattava solo dei soldi da versare ai giocatori. Per anni, il nostro staff ha avuto il desiderio di comprare un costoso computer che gli permettesse di scannerizzare i nostri corpi per tenere sotto controllo i progressi durante la stagione. Sterling non ha mai firmato per acconsentire all’acquisto.

Quest’anno, al training camp, c’era tutta un’altra atmosfera. Tutti sorridevano, dalla security al personale del front office: tutti sembravano essere felici di essere lì. Per paragonare Ballmer e Sterling, si potrebbe dire che il primo è un bravo padre che ti regala le caramelle, mentre il secondo era un ambiguo zio.

Francesco Manzi

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