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Maledetto 26 gennaio

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Domenica 26 gennaio 2020 un elicottero Sikorsky S-76B bianco a strisce blu decolla dall’aeroporto John Wayne di Orange County, a Los Angeles, diretto a un torneo della Mamba Sports Academy che si sarebbe dovuto tenere nell’area settentrionale della cittadina californiana. A bordo ci sono la leggenda della pallacanestro Kobe Bryant, la figlia tredicenne Gianna Bryant, altre due compagne di squadra di lei, il pilota e quattro persone coinvolte nell’AAU basket program. Dopo pochi minuti dal decollo l’elicottero incontra un fitto banco di nebbia, si schianta contro la collina di Calabasas e precipita nel vuoto, uccidendo tutte le nove persone a bordo, e privandoci per sempre di Kobe.

Kobe Bryant è stato il basket. Ha ispirato centinaia di migliaia di ragazzini a cimentarsi nella pallacanestro, ha spinto i più grandi, che magari avevano già appeso le scarpe al chiodo, a rimettersi in gioco e tornare sul parquet. Ha veicolato su di sé un sentimento di affetto talmente forte che ancora oggi molti di noi indossano la canottina numero 24 dei Lakers (o anche la numero 8, quella degli inizi gialloviola) in ogni momento, addirittura anche per dormire. Il Black mamba ha dato al mondo del basket nuova linfa vitale, alzando l’asticella e fornendo a tutti un nuovo limite con cui misurarsi. Lo stesso LeBron James, il giorno seguente al disastro, postò una foto di Kobe su Instagram e nella didascalia si limitò a scrivere: «Prometto di portare avanti la tua eredità».

Oggi sono già passati tre anni, tre anni senza Kobe. È impossibile, per ogni singolo appassionato di basket (ma non soltanto per loro), dimenticare cosa stesse facendo la sera del 26 gennaio 2020 prima di essere travolto da quella tremenda notizia. Ricordo che ero seduto in poltrona in soggiorno, accanto ai miei genitori, che lessi la notizia da un tabloid americano e, dopo aver chiesto a mio padre di accendere il televisore su un qualsiasi telegiornale, rimasi in silenzio per tutto il resto della serata. Come ha spiegato Mike Sielski, giornalista del Philadelphia Inquirer, «non si dimentica un giorno come quello. Non si dimentica una morte in grado di scuotere l’asse terrestre».

E in Italia la scossa fu forte almeno tanto quanto lo fu negli Stati Uniti. Perché Kobe era parecchio italiano. Si sentiva parecchio italiano. Provava un amore folle per la nostra penisola. In Italia aveva seguito il padre Joe negli anni in cui quest’ultimo aveva giocato a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia (tra il 1984 e il 1991, nel periodo tra i 6 e i 13 anni di Kobe). In Italia ha frequentato la scuola e ha trascorso la sua infanzia. In Italia ha iniziato a giocare a pallacanestro, a Reggio Emilia, nel 1989. In Italia ha imparato quanto fosse importante la tecnica a discapito dello spettacolo («crescere oltreoceano mi ha dato un incredibile vantaggio, perché ho perfezionato prima di tutto i fondamentali del gioco»). Alle sue quattro figlie ha dato nomi italiani: Gianna, Natalia, Bianca e Capri.

Subito dopo la tragedia è diventato virale uno spezzone di una sua intervista in cui Kobe affermava di usare l’italiano per insultare gli arbitri americani senza che questi potessero capirlo, dicendo loro «vaffanculo» ma col sorriso stampato in faccia. E allora vaffanculo a quel maledetto 26 gennaio, vaffanculo a quella maledetta nebbia e vaffanculo alla maledetta fatalità. Tra tutti questi vaffanculo, però, anche noi preferiamo ricordarti con il sorriso. E vogliamo ricordarti non soltanto come un grande atleta, ma prima di tutto come un grande uomo capace di lasciare dietro di sé un’eredità indelebile.

Ciao, Kobe.

Michele Piazza

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