scottie pippen michael jordan nba

NBA Finals 1997, Game 5: The Flu Game – “Never underestimate the heart of a champion”

Home Rubriche

Stagione NBA 1996/97, Jordan a quota 4 titoli, l’ultimo dei quali vinto l’anno precedente. Michael e i suoi compagni Scottie Pippen e Dennis Rodman furono protagonisti di un incredibile stagione e, nonostante l’assenza di Toni Kukoc per gran parte di essa, chiusero con un record impressionante: 69-13. Erano gli anni dei Bulls dei record, e per Jordan e soci vincerne 69 non era un così grosso problema. Era la stagione dei 16.1 rimbalzi di media di Rodman e della sua sospensione seguita all’aggressione di un “povero” cameraman;  la prima stagione nella lega di Ray Allen, Steve Nash, Kobe Bryant, Allen Iverson, Stephon Marbury, Marcus Camby e tantissimi altri;  la stagione dell’MVP Karl Malone;  la stagione della firma di Shaq per i Lakers e dell’inizio del suo rapporto con Kobe. Benchè il record stagionale fosse molto promettente, i Bulls erano solo all’inizio e vincere l’anello non sarebbe stato per nulla semplice.

Se ad Est non avevano grossi avversari, oltre gli Heat di coach Pat Riley e Tim Hardaway,  ad Ovest vagavano pericolosi i Jazz di John Stockton e Karl Malone. I Bulls entrano molto sicuri nei playoff e, forti anche del ritrovato Tony Kukoc, eliminarono in 3 gare i Washigton Bullets e successivamente polverizzarono in 5 gare (al meglio delle sette) gli Atlanta Hawks di Dikembe Mutombo. Sembrava andare tutto perfettamente e infatti in molti avrebbero scommesso sulla vittoria finale dei Chicago Bulls. In finale di Conference gli avversari di Jordan&Co furono i Miami Heat, inutile stare a precisare il risultato: 4-1 e serie mai realmente iniziata, nonostante i tentativi di resistenza di Tim Hardaway, Alonzo Mourning e Pat Riley.

Dall’altra parte del tabellone, come previsto, ci sono gli Utah Jazz, che stanno provando a tenere il ritmo dei Bulls. Anche il loro cammino non è dei più difficili, fatta eccezione per la finale di Conference che vincono 4-2 grazie ad un prodigioso canestro alla fine di Gara-6 di John Stockton contro Houston.

Saluto di rito allo United Center prima di gara 1 tra i principali protagonisti della serie
Saluto di rito allo United Center prima di gara 1 tra i principali protagonisti della serie

Come da pronostico Bulls e Jazz si sarebbero affrontati in finale: Jordan e Pippen contro Stockton e Malone, il massimo dell’epoca per gli appassionati NBA.

A partire meglio sono i Bulls, forti del fattore campo a loro favore, vincono la prima gara combattendo fino all’ultimo grazie alla grandiosa prestazione di Pippen e al jumper sulla sirena di Michael che regalò la vittoria alla squadra. La seconda gara ha lo stesso protagonista della prima (non che questa fosse una novità): MJ. Il numero 23 dei “tori” prende in mano la partita, decidendola e dominandola, alla fine per lui si parla di 38 punti, 13 rimbalzi e 9 assist. Con i Bulls sul 2-0, Jordan e i compagni ottengono tutti i consensi e i pronostici di esperti, tifosi e giornalisti. Sembra quasi che l’anello sia già al loro dito, ma qualcosa sta per cambiare. Innanzitutto a cambiare sarà la “location”, la serie si trasferisce al Delta Center di Salt Lake City, ma oltre al palazzetto cambiano parecchi fattori.

Gara-3 è dominata da Malone, 37 punti e 10 rimbalzi stendono Jordan e Pippen, che però conservano il vantaggio. Il tempo di attendere la fine del quarto incontro e sarà solo un ricordo. Gara-4 è una vera e propria guerra sportiva: punteggi bassi, cattiveria in campo e partita appesa ad un filo. I minuti finali, per una volta, danno torto a MJ23: la spuntano Malone e Stockton grazie ad alcune giocate decisive.

Ma ciò di cui si parla in questo articolo è Gara-5 delle finali del 1996/97. Alla fine di Gara-4 si pronostica una partita durissima, ma vedendo l’influenza che aveva avuto fino a quel momento il fattore campo, i Jazz sarebbero stati i favoriti. I Bulls avevano dalla loro parte Michael, e i tifosi, lo staff e la dirigenza, che si affidavano a lui nei momenti difficili, speravano potesse regalare loro una partita epica. Il giorno prima di Gara-5, Jordan si sveglia in condizioni tragiche, un fortissimo senso di nausea non gli permette neanche di rimanere steso a letto. Lo staff e la dirigenza iniziano a preoccuparsi quando i medici parlano di virus allo stomaco; iniziano letteralmente a disperarsi quando concludono che MJ non potrà scendere in campo nel quinto episodio della serie finale, in dubbio anche per il sesto. La notizia blocca il respiro di tutti i tifosi dei Bulls, battere i Jazz era difficile con Jordan, figuratevi senza. Dopo l’annuncio dei medici, seguono ore di panico, Jordan è in condizioni impresentabili e non ha una minima opportunità di scendere in campo la sera successiva.

“Never underestimate the heart of a champion” . E’ il titolo del nostro articolo, ma soprattutto è una regola dello sport, una regola particolare. Nel nostro caso non parliamo di un semplice campione, ma del campione dei campioni, ed è qui che “la regola” acquisisce un significato diverso, diventando più rigida. Uno stremato Michael dorme per tutto il giorno, svegliandosi solo tre ore prima dell’ incontro. Era destino, virus o non virus, quella partita doveva essere giocata dal 23.

Un esausto MJ cerca di trovare un attimo di concentrazione per riprendere la gara
Un esausto MJ cerca di trovare un attimo di concentrazione per riprendere la gara

Le condizioni di Michael erano chiare a tutti: a stento riusciva a reggersi in piedi, anche se con il  passare dei minuti, nonostante aumentasse la stanchezza, la qualità del gioco di MJ migliorava.  Dopo un quarto e spiccioli di gioco il tabellone segnava +16 Utah Jazz e le possibilità di portare a casa Gara-5 per i Bulls si riducevano di attimo in attimo. Jordan dà tutto se stesso alla fine del secondo quarto, ricucendo in parte lo svantaggio e regalando alla sua squadra una nuova speranza. Purtroppo però, all’ingresso di Michael in campo nel quarto successivo si ha la netta sensazione che le poche energie siano state bruciate nei minuti precedenti. Il terzo periodo è quindi tutto dei Jazz, Jordan non ne ha più e il vantaggio di Malone e compagni aumenta notevolmente.

Ritorniamo alla nostra “regola” e ricordiamoci, ripetiamolo, che Jordan non è stato un semplice campione, ma il campione dei campioni. Ora un avviso per chi di voi non conoscesse ancora questa storia: aprite bene gli occhi, leggete attentamente, sarà difficile crederci, lo è stato per tutti. Il quarto quarto di Jordan è epocale. Un ragazzo che non si reggeva in piedi decide di vincere la partita, lo decide il suo cuore e come nel migliore dei film il corpo di Jordan è protagonista di una metamorfosi (sportivamente parlando). Non è più controllato dal cervello, ma dal cuore. Ecco la differenza tra i campioni e i comuni mortali. Dal nulla, MJ inizia a segnare in tutti i modi, a coinvolgere i compagni, a suonare la carica e, mentre i minuti passano, il vantaggio dei Jazz diminuisce.

Mancano solo 46 secondi alla fine e i Bulls sono sotto di un solo punto, in lunetta c’è lui: Michael Jordan. Due liberi, il primo entra, il secondo no. Uno svelto Toni Kukoc tocca la palla indirizzandola verso il 23, che la affida a sua volta a Scottie Pippen. La difesa accenna ad un raddoppio su Scottie, che riesce a servire di nuovo MJ, come ben potete immaginare, o come molti di voi sanno già, dalle mani della leggenda la palla usce con la consueta delicatezza e dolcezza. Il cuore dei tifosi e dei compagni si ferma per qualche istante: il tempo che impiega la palla a disegnare una parabola perfetta e a interrompere il proprio viaggio con un suono della retina che lascia nell’aria un sapore di vittoria. Inutili saranno i tentativi dei Jazz di recuperare quello svantaggio.

Al rientro in panchina tutti i compagni sostennero MJ, capace per l'ennesima volta di chiudere i conti portando i Bulls al successo
Al rientro in panchina tutti i compagni sostennero Jordan, capace per l’ennesima volta di chiudere i conti portando i Bulls al successo

Quando la sirena suonerà per chiamare il timeout dei Jazz a sei secondi dalla fine con i Bulls sopra di tre punti, la panchina dei Bulls esploderà, ma Michael rimarrà immobile e si lascerà cadere tra le braccia di Pippen, godendosi da esausto uno dei momenti più belli e simbolici della sua vita, appoggiato a peso morto e sorretto dal compagno che probabilmente aveva cambiato le sorti della sua carriera. Ancora oggi è impossibile spiegarsi come un uomo privo di energia e con un virus in corpo sia riuscito a giocare 44 minuti mettendo a referto  38 punti, 7 rimbalzi, 5 assist, 3 palle rubate e una stoppata. Ma ciò che sorprende non sono i numeri in sé per sé: l’amore verso il gioco, verso i compagni e la sete di vittoria che Jordan aveva non erano umane, ed fu proprio grazie a questi fattori che un’impresa del genere, insieme a molte altre, è stata resa possibile.

Inutile stare a precisare come terminerà la serie. Jordan si riprenderà mettendo a referto altri 39 punti conditi da 11 rimbalzi e 5 assist in Gara-6, vincendo un’ altra partita tirata fino all’ultimo secondo.

Quello che Jordan riuscì a fare l’ 11 giugno del 1997 rimane un mistero, e rimarrà tale per sempre. Michael l’anno successivo punirà nuovamente i Jazz in finale conquistando il suo sesto e ultimo titolo, nei Playoff di quell’anno pareggerà il suo massimo in carriera con 63 punti. Ma tra le tante imprese compiute dal numero 23, “The Flu Game” rimane la più incredibile, la meno umana e la meno spiegabile.

Ricordate: “Never underestimate the heart of a champion”.

-Red Auerbach.

Redazione BasketUniverso

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.