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I Boston Celtics sono stati una meteora?

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“You’ll be back, no doubt about it”

– Draymond Green a Grant Williams

Queste sono le parole che, finita gara 6, l’ala dei Celtics ha sentito dirsi dal veterano di Golden State, uno che quando parla di pallacanestro tende a farlo con cognizione di causa. Possono anche sembrare le classiche parole di circostanza che, dopo una finale, sentiamo spesso dai giocatori mentre si mostrano il reciproco rispetto dopo la battaglia (tecnica, tattica e verbale) sul parquet. Ma Draymond Green lo aveva già pronosticato durante le finali di conference e analizzando (per non dire lodando) nel suo podcast il gioco di Boston durante tutti questi Playoffs.

Ma i Celtics possono davvero nel breve periodo tornare a competere per l’anello?

Oltre le più rosee aspettative

Sono passati ormai 14 anni dall’ultimo titolo vinto dai Celtics e, dopo due finali perse e sei apparizioni in finale di Conference, la ricerca del 18° titolo comincia a diventare una vera ossessione per una se non la franchigia più iconica dell’NBA, raggiunta a 17 vittorie nel 2020 dai rivali storici dei Lakers.

Questo gruppo ha quasi sempre sorpreso negli anni recenti per i risultati ottenuti basandosi sulle aspettative di partenza (così come ha deluso quando le aspettative erano più alte, come nel 2019) e questa stagione, visto l’assurdo percorso che ha portato Boston a solo due vittorie dal trionfo, sembrava proprio quella buona: cambio di ruolo per Brad Stevens da coach a GM, scelta di un nuovo allenatore esordiente, trade di Kemba Walker per Al Horford, partenza con record di 23 vittorie e 24 perse e poi lo switch fino al secondo posto a est e le vittorie nelle serie contro Nets, Bucks e Heat, sempre considerati favoriti rispetto ai Celtics.

Da dove ripartire quindi per rimanere ai vertici dell’NBA?

Michael Smith: boston Celtics' Jayson Tatum 'evolved' during series vs. Warriors | NBC Sports

Senza dubbio, da coach Udoka. L’ex pupillo di Gregg Popovich è riuscito, al netto delle difficoltà iniziali, a dare convinzione e stimoli a un gruppo sì talentuoso ma non troppo, un po’ perso nella mediocrità di inizio stagione e senza un’identità ben precisa.

La sua capacità gestionale e oratoria (sia nei timeout che nelle dichiarazioni alla squadra pre e post partita) ha reso possibile, prima ancora delle scelte tecniche e tattiche, di organizzare una delle migliori difese della storia NBA: 1° per defensive rating in stagione e con la capacità di cambiare pelle laddove necessario, passando da cambi sistematici continui in regular season a farlo solo se funzionale alla vittoria, mischiando aggressività e coesione a scelte coraggiose per non dire controintuitive (come il drop del difensore del bloccante sui pick and roll di Curry), che hanno pagato fino al quarto quarto di gara 4 di queste Finals, ovvero sia quando Steph ha deciso che era il momento di portare a casa quarto anello e premio di MVP. Lo stesso dicasi per gara 5, la cui inerzia è girata con il buzzer beater di Poole a fine terzo quarto, prima del quale Boston era ancora avanti.

Perchè Ime Udoka ha deciso di difendere tenendo in drop il difensore del bloccante e non facendo show o raddoppiando? Perchè poi succede questo. LeBron James e i Cavs ne sanno qualcosa.

Le altre buone notizie arrivano dalla continua maturazione di Jaylen Brown (che manca ancora di qualche lettura per essere davvero letale) e del rendimento dalla panchina di White e Grant Williams, calati in fase offensiva nelle Finals ma preziosissimi a 360° nel resto dei Playoffs. Infine la post season di Horford è stata clamorosa, soprattutto considerando come è stata accolta la trade di esattamente un anno fa. Tutte le piccole cose che fa, su due metà campo, sono incalcolabili e la vera domanda è per quanto questo rendimento possa durare ancora visto che le candeline spente un paio di settimane fa sono state 36.

In questa azione difensiva c’è tutto: continuità con le proprie scelte (drop di Horford), recupero del difensore del palleggiatore dopo il blocco per scoraggiare il palleggio-arresto-tiro con conseguente riposizionamento del difensore del bloccante, mani attive, raddoppi, deflections, letture senza palla. Spesso contro Curry non è bastato.

La difesa, perfettamente inserita in un contesto in cui chiunque può essere un ottimo difensore nel singolo possesso ma ancorata su Marcus Smart (premiato come difensore dell’anno) e sul potenziale ancora inesplorato di Robert Williams, eroico in certi frangenti visto il problema al ginocchio, deve come detto necessariamente essere la base da cui questo roster deve ripartire e che a maggio e giugno ti permette di rimanere sempre in partita anche quando emergono le difficoltà. Già, quali difficoltà?

Cosa non ha funzionato in queste Finals?

Troppo facile trovare in Jayson Tatum il capro espiatorio delle tre sconfitte finali di Boston. La stella dei Celtics ha trascinato i suoi durante i primi tre turni di Playoffs, elevando il suo gioco rispetto alle passate stagioni, crescendo a livelli esponenziali in difesa (citofonare Kevin Durant) e come passatore (7.0 assist nelle Finals e 6.2 in tutta la post season). Eppure contro gli Warriors ha trovato parecchie difficoltà al tiro, in termini di convinzione e di costruzione, anche grazie alla museruola che Andrew Wiggins gli ha messo addosso: 36.7% dal campo e soprattutto 31.2% da due, oltre 20 punti percentuali in meno rispetto alla regular season.

Queste sono alcune delle palle perse dei Celtics in gara 5, dopo alcune penetrazioni. Il dato più drammatico è che oltre a queste tante venivano generate anche nelle prime fasi dell’attacco, senza aggressività.

L’altro tasto dolente del prodotto di Duke (così come per tutta la squadra) sono state le palle perse, arrivate a quota 100 totali in questi Playoffs, spesso mortifere contro una squadra come Golden State e soprattutto determinanti per ciò che la difesa dei Celtics ti costringe invece a fare a difesa schierata. Non a caso, la differenza di palle perse di squadra nelle vittorie e nelle sconfitte è abissale: 12.8 contro 17.4. Quando Boston ha superato le 16 in partita, ha perso 8 partite su 8 (14-2 invece il record se mantenute sotto le 15).

In generale l’attacco di Boston non è stato all’altezza della metà campo difensiva nelle ultime tre partite e in gara 2: quando oltre alle palle perse arrivavano forzature o isolamenti senza muovere la palla che generavano anche una semplice transizione secondaria, Golden State ha sguazzato azionando tutto il proprio potenziale offensivo generando tantissimi parziali. In tutti i Playoffs le caratteristiche negative principali dei Celtics sono state le difficoltà in the clutch e subire spesso parziali che hanno ammazzato la partita nei primi quarti oppure hanno permesso gli avversari di riaprila quando sembrava già una pratica chiusa, sintomo di un’acerbità ancora da sgrezzare.

Infine, i Celtics hanno giocato contro gli Warriors con quest’ultimi al massimo delle proprie forze (non ci dimentichiamo di James Wiseman, ma di fatto non avendo giocato un singolo minuto in stagione, si può considerare Golden State a pieno regime), a differenza dei turni precedenti nei quali le condizioni fisiche degli avversari (su tutti Middleton e gli infortuni in casa Miami) e la stagione modalità montagne russe dei Nets hanno reso un filo più facile la gestione delle pratiche per Horford e compagni. La superiorità degli Warriors in termini di esperienza e di lucidità a questi livello ha fatto il resto.

Dove possono e devono migliorare i Celtics?

The 2022 Boston Celtics Are On The Brink, Maybe For The Final Time

La qualità del roster e in generale dello starting five non è in discussione e reagire in modo eccessivo nei confronti di una squadra che a metà ultimo quarto di gara 4, avanti 2-1, era avanti di due possessi, sarebbe controproducente. Ma la profondità della panchina e soprattutto l’aggiunta di un secondo portatore di palla esperto che possa aiutare Smart e compagni sono fondamentali e verosimilmente sono i due punti chiave su cui dovrà lavorare Brad Stevens in estate, in ottica trade o free agent.

Perché al draft Boston ha solo la scelta numero 53, e la flessibilità salariale (considerando che poi la prossima estate bisognerà fare i conti, su tutti, con il rinnovo di Jaylen Brown) non è granchè se si fa eccezione per la Trade Exception (TPE) da 17.1 milioni maturata con la cessione di Evan Fournier, che va usata entro il 18 luglio. Liberarsi di qualche giovane che non ha reso come ci si aspettava (leggasi Aaron Neismith), provare a fare trade down e usare la TPE sono le carte che la dirigenza dei Celtics può giocarsi per puntellare il roster.

Boston ha ruotato fondamentalmente in otto uomini, escludendo i pochi minuti concessi a Theis più che altro quando il ginocchio di Robert Williams non ha permesso a Time Lord di scendere in campo. Ma se White e Grant Williams hanno giocato ottime partite in questi due mesi e sono stati importantissimi in alcune vittorie, crollando solo nelle ultime sfide delle Finals, gli sprazzi di Payton Pritchard (comunque mai negativo e in qualche frangente prezioso con il tiro da tre punti,  calato anche per lui solo alla fine, 1/11 degli ultimi tiri da tre tentati) sono ancora un po’ troppo poco per fare la differenza.

Questi otto, la cui età media escludendo Horford è di soli 25 anni, sono con contratto anche per la prossima stagione e, ipotizzando la presenza di tutti il prossimo ottobre, avere più talento altrimenti limitato solo a Tatum e Brown, con qualche punto in più nelle mani dalla panchina (soprattutto al tiro da tre) e liberare i primi violini da qualche compito di playmaking migliorerebbe un attacco che, in complemento a quella difesa, renderebbe la squadra di coach Udoka attraente per i free agent in cerca di un anello e, di conseguenza, nuovamente tra le favorite.

Se le altre rivali a Est tornano ai Playoffs senza defezioni o addirittura più forti la strada dei Boston Celtics per tornare alle Finals potrebbe essere molto tortuosa, ma i mezzi, la consapevolezza e soprattutto l’esperienza maturata in questa cavalcata, soprattutto per Tatum come testimoniano i due tweet di cui sopra, sono tutte dalla parte di Boston per tenere fede alla previsione di Draymond Green e tornare a competere e magari vincere quel tanto agognato Banner 18.

Michele Manzini

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