scottie pippen jordan

NBA – Scottie Pippen ha attaccato Michael Jordan e The Last Dance nel suo libro

Home NBA News

Il 10 novembre uscirà ufficialmente il libro autobiografico di Scottie Pippen, “Unguarded”. L’ex giocatore dei Chicago Bulls qualche mese fa era tornato alla ribalta attaccando Phil Jackson e definendolo un razzista. Ora Pippen, nel suo libro, se l’è invece presa con Michael Jordan per The Last Dance, la docu-serie uscita nella primavera del 2020 su Netflix che racconta le gesta di quei Bulls.

Come ci si poteva aspettare, la principale lamentela di Scottie Pippen risiede nel fatto che MJ, che ha supervisionato la docu-serie, avrebbe dato troppo spazio a sé stesso rispetto ai compagni. GQ ha pubblicato alcuni estratti del libro che uscirà tra circa una settimana, tra i quali quello relativo a The Last Dance.

Gli ultimi due episodi sono stati trasmessi il 17 maggio. Simile ai precedenti otto, anche questi due glorificavano Michael Jordan e non davano nemmeno lontanamente abbastanza credito a me e ai miei compagni. Michael ha la maggior parte delle colpe in questo. I produttori gli avevano dato il controllo editoriale del prodotto finito. Il documentario non sarebbe stato pubblicato senza il suo ok. Era la guida e il direttore. Non mi aspettavo tutto questo. Quando venni a sapere del documentario qualche anno prima, non vedevo l’ora, sapevo che sarebbero stati mostrati dei filmati indetiti.

I miei anni a Chicago, dall’autunno del 1987, furono i più belli della mia carriera. Dodici uomini che giocano come fossero uno solo, riconcorrono sogni e avevano fin da bambini al campetto, quando serviva solo una palla, un canestro e l’immaginazione. Essere stato un membro dei Bulls durante gli anni ’90 è stato qualcosa di magico. Sia per i nostri tempi che per tutti i tempi.

Michael però era determinato a provare alla generazione corrente di tifosi che in quel periodo fosse “larger than life”, e migliore di LeBron James, un giocatore che molti considerano sui pari, se non superiore. Quindi Michael ha presentato la sua storia, non la storia di “Last Dance”, come il nostro coach, Phil Jackson, la definì nella stagione 1997-98 quando divenne ovvio che i due Jerry (il proprietario Jerry Reinsdorf e il GM Jerry Krause) avessero intenzione di chiudere un ciclo indipendentemente da come sarebbe andato l’anno. Come disse Krause a Phil nell’autunno del 1997: puoi anche vincere 82 partite, non farà differenza, questa sarà la tua ultima stagione sulla panchina di Chicago.

ESPN mi ha mandato i primi otto episodi con un paio di settimane di anticipo. Li ho guardati nella mia casa nel Sud della California con i miei tre ragazzi, non potevo credere ai miei occhi. Tra le scene del primo episodio:

  • Michael, un freshman di North Carolina, segna il game-winner contro Georgetown nella finale NCAA del 1982.
  • Michael, draftato alla terza chiamata assoluta dai Bulls nel 1984 dietro Olajuwon e Bowie, che parla di come spera di rivoluzionare la franchigia.
  • Michael che guida i Bulls ad una vittoria in rimonta contro i Milwaukee Bucks alla sua terza partita.

Man mano che andava avanti, i riflettori erano sempre più sul numero 23. Addirittura nel secondo episodio, che si concentrava per un po’ sulla mia difficile infanzia e sul mio improbabile cammino verso la NBA, la narrativa tornava su MJ e la sua determinazione a vincere. Non ero altro che un accessorio. Mi chiamava “il suo miglior compagno di sempre”. Non avrebbe potuto essere più accondiscendente di così.

Anche quando ci ho ripensato non potevo crederci. Ho speso tanto tempo vicino a lui, sapevo come era fatto. Per quanto fossi ingenuo, non potevo aspettarmi altro. Ogni episodio era uguale: Michael sul piedistallo, tutti i compagni dietro, più piccoli, il messaggio non era diverso rispetto a quando ci definì tempo fa il suo “supporting cast”. Da una stagione all’altra, ricevevamo poco credito o addirittura nessuno qualsiasi cosa vincessimo, ma venivamo colpevolizzati se perdevamo. Michael poteva anche tirare 6/24 dal campo, perdere 5 palloni e nella testa della stampa e del pubblico che lo adoravano rimaneva l’infallibile Jordan.

Nella situazione in cui ero, nel mezzo dei miei 50 anni, a 17 anni dalla mia ultima partita, stavo guardandoci essere sminuiti ancora una volta. Esserlo stati una volta era già stato abbastanza umiliante. Nelle settimane successive [all’uscita di The Last Dance, ndr], ho parlato con un buon numero di ex compagni che come me si sono sentiti mancati di rispetto. Come osa Michael trattarci in quel modo dopo tutto ciò che abbiamo fatto per lui e il suo prezioso brand? Michael Jordan non sarebbe mai stato Michael Jordan senza me, Horace Grant, Toni Kukoc, John Paxson, Steve Kerr, Dennis Rodman, Bill Cartwright, Ron Harper, BJ Armstrong, Luc Longley, Will Perdue e Bill Wennington. Mi scuso con chiunque non abbia nominato.

Non sto dicendo che Michael Jordan non sarebbe stata una superstar in qualsiasi squadra avesse giocato. Era spettacolare. Voglio dire che si è appropriato di un successo che abbiamo ottenuto come squadra, sei titoli in otto anni, per innalzarsi al livello di fama nel mondo che nessun altro atleta, se non Muhammad Ali, ha raggiunto in tempi moderni. Per peggiorare ancora le cose, Michael ha ricevuto 10 milioni di dollari per il suo ruolo nel documentario, mentre io e i miei compagni non siamo stati pagati neanche un centesimo. Un altro simbolo dell’ordine gerarchico presente fin dai vecchi tempi. Per un’intera stagione, abbiamo permesso alle telecamere di entrare nella santità del nostro spogliatoio, nei nostri allenamenti, nei nostri hotel, nei nostri incontri… nelle nostre vite.

Francesco Manzi

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.