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The Greatest Show On Court, quando i Sacramento Kings erano forti

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Una delle squadre più spettacolari della NBA moderna a non aver mai vinto nulla: i Sacramento Kings di inizio anni 2000, una favola che ha avuto il suo apice nel 2002, quando si arresero ai Los Angeles Lakers (e ad alcuni fischi molto controversi) in finale di conference.

Le fondamenta della crescita esponenziale dei Sacramento Kings partono dall’estate del 1998, quando la franchigia decide di rivoluzionare il proprio roster. Scambiano il proprio miglior giocatore, Mitch Richmond, e Othis Thorpe per prendere Chris Webber, da Washington, 25enne lungo mobile in rampa di lancio con i Bullets per diventare uno dei 4 più dominanti della Lega. Aggiungono un tiratore micidiale come Stojakovic (dal Draft di due anni prima, era rimasto in Europa) e un centro di assoluta esperienza da affiancare a Webber, ovvero Vlade Divac, ma soprattutto draftano Jason White Chocolate Williams, playmaker che fa della fantasia da playground e dell’imprevedibilità le sue armi migliori, il tutto nelle mani di coach Rick Adelman, classe 1946, sergente di ferro con 15 anni di panchine NBA alle spalle. Un mix pronto ad esplodere, o ad implodere, da un momento all’altro.

La coppia Williams-Webber inizia ben presto a trovare ammiratori tra i tifosi, sebbene il primo perda un po’ troppi palloni per cercare giocate spettacolari ed il secondo sia spesso accusato di sparire nelle partite importanti. Alla prima occasione utile arriva la prima stagione vincente della storia dei Kings (record di 27-23, anno del lockout) e un’uscita al primo turno dei playoff contro gli Utah Jazz. Nella seconda stagione insieme, grazie anche all’arrivo di uno specialista difensivo come Doug Christie, Williams e Webber portano Sacramento ad un record di addirittura 55 vinte e 27 perse, il migliore di sempre per i neroviola.

Una copertina di Sports Illustrated li definì “The Greatest Show on Court”, ovvero il più grande spettacolo in campo: Stojakovic e Webber in attacco si completavano a meraviglia, Divac e Christie facevano il lavoro sporco in difesa e Williams illuminava il campo con le sue giocate. Dalla panchina si alzava l’energia pura di Bobby Jackson, un giovanissimo Hedo Turkoglu e Scott Pollard.

La stagione 2001 termina con l’eliminazione al secondo turno per mano dei Lakers, che servono un netto 4-0 alla banda di coach Adelman. Nell’offseason del 2001, la dirigenza californiana prende una decisione coraggiosa: il fan favorite Jason Williams, accusato di perdere troppi palloni e di prendersi qualche pausa di troppo in difesa, viene mandato a Vancouver (che in quel momento si stava spostando a Memphis) in cambio di Mike Bibby, un playmaker più solido, meno spettacolare ma più efficace in attacco e soprattutto in difesa. Con questa scelta i Kings mettono tutto nelle mani dei propri lunghi, ed in particolare di Chris Webber, chiamato a 28 anni alla stagione della definitiva consacrazione.

Il piano della franchigia funziona: i Kings perdono in spettacolarità ma diventano una macchina da guerra, accumulando vittorie su vittorie anche grazie ad un gioco più funzionale per le proprie stelle e chiudendo la stagione regolare con il miglior record della NBA, 61-21, che vuol dire fattore campo per tutta la durata dei playoff. I primi due turni filano via lisci: 3-1 ai Jazz e 4-1 ai Mavericks, per finalmente arrivare alla serie della possibile rivincita, quella contro gli odiati Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, bi-campioni NBA in carica.

Molti la ricordano ancora come una delle più belle serie playoff di tutti i tempi. Nei duelli Christie-Bryant e Divac-O’Neal i Kings tengono botta, mentre Webber e Bibby dominano Horry e Fisher; Sacramento sale in vantaggio 2-1, in gara-4 arriva l’iconico buzzer beater di Robert Horry con la tripla frontale, gara-5 ha un ennesimo finale in volata, con Sacramento che riesce a ottenere il successo 92-91 grazie ad una giocata difensiva di Divac su Bryant e un canestro di Bibby, guadagnandosi così due occasioni per chiudere la serie.

 

L’opportunità più ghiotta arriva proprio in gara-6, quando i Kings conducono fino a 2′ dalla fine. Ma 27 tiri liberi concessi dal trio arbitrale ai gialloviola e le assenze di Pollard e Divac, entrambi carichi di 6 falli, permettono ad O’Neal (41 punti, 17 rimbalzi, 13/17 ai liberi), Bryant (31 punti, 11 rimbalzi, 11/11 ai liberi) e compagni di pareggiare la serie.

Gara-7 passa invece alla storia per la tripla sbagliata da Stojakovic a 10″ dalla fine (sul 98-99 Lakers) ed il dominio di Shaq nel supplementare. Alle Finals, i Lakers avrebbero poi sconfitto i New Jersey Nets per 4-0, completando il fin qui ultimo, in ordine cronologico, Three-peat della storia NBA.

In seguito a quest’ennesimo stop di fronte ai Lakers, i Sacramento Kings si disuniscono. Webber si fa male al ginocchio la stagione successiva e non sarà mai più lo stesso, piano piano i giocatori se ne vanno e la franchigia entra in una perenne fase di rebuilding che dura fino ai giorni nostri. Attualmente sono la squadra che manca ai playoff da più tempo, dal 2006.

I Sacramento Kings non saranno di certo la franchigia più vincente della storia recente della NBA, anzi, semmai sono la meno vincente. Ma insieme ad Allen Iverson sono stati il motivo principale del cambio di stile della NBA, per certi versi più importante di un Larry O’Brien alzato al cielo. Da sport d’élite a sport “di strada”: le maglie viola e nere di Webber, Bibby, Stojakovic, Christie, Divac, Jackson, Pollard, Turkoglu, Funderburke e Gerald Wallace hanno rappresentato per due stagioni la speranza, quella bellissima ed eterna favola di Davide contro Golia, che ha avvicinato milioni di tifosi ai Kings e alla Lega più bella del mondo in generale.

Francesco Manelli

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