Esclusiva BU, Riccardo Cervi: “Sto vivendo un sogno in Puglia. Il basket non è mai stato un’ossessione”

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Nei mesi scorsi Riccardo Cervi ha annunciato il proprio ritiro ufficiale dal basket giocato. L’ex centro di Reggio Emilia, Avellino, Varese, Trieste, Virtus Roma e Scafati ha appeso le scarpe al chiodo ad appena 31 anni a causa di cronici problemi alle ginocchia. Ora ha iniziato una nuova attività che col basket non ha proprio nulla a che fare, lo fa in Puglia insieme alla sua compagna e sta vivendo un vero e proprio sogno.

Lo abbiamo intervistato, per sapere come sta andando questa “seconda vita”, dopo il ritiro dal basket ed essere stato ad un certo punto la speranza per il ruolo del centro dell’Italbasket.

 

Com’è la nuova vita di Riccardo Cervi? Come si vive tra i trulli in Puglia?

Ho iniziato a conoscere questo posto dal 2015, poi ho deciso di prendere casa per l’ estate e ora ci vivo. Ho sempre amato il mare selvaggio come c’è qui, chilometri di spiagge e coste incontaminate come secoli fa. Spesso sei in spiaggia, ti giri e ci sono le capre. Anche l’entroterra ha il suo fascino con i muretti a secco e la cura per i dettagli. È stato amore a prima vista, anche se ho sempre sognato vivere in un posto così. Negli ultimi anni c’è stata una forte spinta turistica e ho continuato a fare quello che stavo già facendo.

Ho trovato alcuni trulli da abbellire e ristrutturare: qui tra gli stranieri è un business che va sempre. Mi sento il vero proprietario perché tutti i lavori manuali che posso fare, li faccio in prima persona e imparo, il resto lo lascio ad artigiani del posto. La mia compagna, poi, è interior designer quindi si occupa dell’arredamento e collaboriamo come una vera squadra.

 

Qual è stato l’episodio che ti ha fatto dire: “Basta, mi fermo dal basket giocato”?

Un episodio non c’è. Ho sempre avuto problemi alle ginocchia, con alti e bassi. Non ho mai avuto un vero infortunio. Dal 2017, anno in cui ho fatto l’ultimo interventino alla cartilagine, non riuscivo più a fare ciò che volevo. Era un continuo prendere farmaci e convincere l’allenatore che stavo bene. Sono momenti in cui vorresti giocare in un certo modo ma non riesci. Vai in città diverse e stai male perché vorresti spiegare ai tuoi compagni e al pubblico che tu sai fare di meglio ma il corpo non va. Il Dottor Rocchi, il chirurgo che mi ha sempre seguito, mi ha detto: “Sicuramente puoi fare un altro anno o due ma a 40 /50 anni come sarai messo?”. E ho deciso.

 

C’è l’idea di tornare nel mondo del basket, dietro la scrivania ?

Mi è stato chiesto tanto anche nel territorio in cui vivo e la risposta è no. Non mi piace essere vincolato a un impegno preciso. Ora sono indipendente, ho il cantiere e i miei ritmi. Non mi sento “portato” né a fare l’allenatore né il dirigente o il procuratore. Ho visto dinamiche che non mi piacciono e non sarei pronto a vivere di nuovo di trasferte e impegni fissati.

 

Hai più volte dichiarato di “non aver mai vissuto per il basket”, che ruolo occupava nella tua vita?

A differenza di tanti miei compagni, non ho mai vissuto la pallacanestro con ossessione. Ho sempre avuto varie isole felici, passioni che andavano e venivano o che restavano e questo mi ha salvato dall’addio al basket. Per quanto sia un lavoro meraviglioso, era difficile programmare a lungo termine perché tutto era scandito da allenamenti e partite. Vuoi anche i problemi fisici ma, all’inizio, l’ho vissuta subito come una liberazione.

 

Il momento più bello della tua carriera da professionista?

Non c’è un momento singolo. Sicuramente ci sono periodi in cui il gruppo, con la G maiuscola, era super e non vedevo l’ora di allenarmi, non solo di giocare e vincere. Anche fuori dal campo era uno spasso, come a Reggio Emilia e Avellino. Anche a Varese, ma poi alcune dinamiche hanno complicato il resto. A quel punto, vincere era frutto di un percorso che facevamo insieme. Il pubblico lo percepiva ed eravamo tutti connessi. Erano giorni belli, in cui giravi per la città e ti godevi ogni cosa.

 

Fai un quintetto con i tuoi 4 compagni più forti. Perché il centro titolare sei tu.

Farò più un quintetto “del cuore”, con giocatori di club in cui ho giocato, senza contare la Nazionale. Come connessione, come playmaker scelgo Marques Green. Era tutto automatico con lui. Come guardia, Joe Ragland perché ad Avellino ci si trovava tutti. Come 3, metto Kaukens; come 4, per talento Polonara ma giocare con Leuneen era come avere un altro play in campo.

 

C’è un aneddoto davvero particolare nella tua carriera: avevi firmato un triennale con Milano, con tanto di comunicato sul sito e post sui social, ma poi tutto è saltato. Cos’è successo in quell’estate incredibile?

Mi si era presentata un’occasione per un palcoscenico più importante. Quei treni che devi prendere, pur sapendo che avrai meno spazio. Sono andato lì, ho fatto le visite, le ho superate tutte tranne la risonanza in cui vedono le problematiche alla cartilagine del ginocchio e quindi decidono di annullare l’accordo. Quell’anno sono andato ad Avellino e, con il senno poi, meglio così!

riccardo cervi

All’inizio della tua carriera sembravi essere destinato a diventare il nuovo centro titolare della Nazionale, c’era chi paragonava Riccardo Cervi a Denis Marconato. Cosa ti è mancato per raggiungere quei livelli?

In Italia c’è sempre una grande fame per i centri e, appena c’è qualcuno papabile, si spera. Sicuramente hanno influito i problemi fisici: l’estate dovevo recuperare e curarmi, invece stringevo i denti e andavo in Azzurro perché era un onore. Ma ovviamente non ero al top. E poi la componente mentale: in Nazionale c’è una competizione a sé e in poco devi trovarti con tutti. A livello di rapporti nei club mi sono sempre trovato meglio perché avevi  il tempo di farti conoscere; in Nazionale ci sono sempre stati meccanismi di competizione in cui non riuscivo a ritrovarmi.

 

Probabilmente sei uno dei giocatori più “personaggio” dell’ultimo decennio. Come mai i tuoi ex colleghi non riescono a ritagliarsi degli spazi, come fecero per esempio Gianmarco Pozzecco o Carlton Myers una ventina di anni fa?

Il problema principale è uno ed è già stato detto da altri: ogni partita di campionato viene vissuta come se fosse la finale della vita o della morte. Se pubblichi una cosa sui social e perdi, ogni volta sei attaccato. Nel mondo normale un giocatore pubblica una cosa, c’è qualche commento e viene messo sotto pressione anche dalla società. E quindi non ti godi niente, anche se sei un ragazzo di 20/25 anni e hai altre passioni.

 

Qual è stato l’errore più grosso che della carriera di Riccardo Cervi e perché?

Per fortuna è difficile trovarne uno veramente grosso. Sicuramente, una cosa che mi critico è che ci ho messo troppo a trovare la mia routine. Fino a 24/25 anni non arrivavo sereno alla partita perché non sapevo quale esercizio mi facesse meglio o cosa mangiare e di conseguenza giocavo meno tranquillo. Diciamo che mi sono cominciato a “godere” il giorno della partita e la partita in sé troppo tardi.

 

Ringraziamo Riccardo Cervi per l’intervista e gli auguriamo il meglio per questa nuova vita tra i trulli in Puglia.

Alessandra Fanella

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